mercoledì 16 dicembre 2009

Logorroico lo nacqui


Dato che ultimamente anche solo i miei commenti tendono ad essere più lunghi dei post delle persone normali, vediamo di darci forzatamente una regolata.

Tema: recensisci in non più di dieci parole il nuovo album degli Arctic Monkeys.

Svolgimento: Qualcuno ha dato loro degli acidi, ce li siamo giocati.

venerdì 11 dicembre 2009

Per nuovi contenuti ci stiamo attrezzando

Ormai sarà una citazione non così fresca, essendo già stata riportata, tra gli altri, su Camillo, ma questa è la sistemazione definitiva di quello che dovrebbe essere il pensiero del tifoso juventino adesso.

Con due sole puntualizzazioni.
1. A me Grygera non sembra così scarso.
2. Non diciamo che su Caceres si può lavorare. Poi va a finire che ce lo riscattano.

lunedì 16 novembre 2009

Me and you and everyone we know try to survive


C'è una sorpresa, all'angolo, tra la strada della fermata e quella dell'ufficio. Un musicista di strada si destreggia nel suo armamentario di trucchi per attirare l'attenzione dei passanti frettolosi. Mi dispiace per lui, in fondo: hai proprio sbagliato momento, amico, a quest'ora tutti corrono in ufficio. Il minuto, poi, il meno adatto. Non lo sai che proprio in questo preciso minuto tutti quelli che ti passano davanti, anche la folla in cui muovo, appena scesa dal tram, appartengono solamente a due categorie di persone? Dovevamo essere in ufficio ormai da un po', e ci affanniamo per ridurre il ritardo, tanto perché le solite piccole scuse possano risultare credibili. Oppure dobbiamo essere lì tra poco, siamo di quelli precisi noi. E non vogliamo sgarrare di un secondo, ovviamente. Non abbiamo proprio tempo per te, non possiamo, mi spiace. Anche se avresti i numeri per essere un grande spettacolo.

Sei vecchio, e non c'è rischio che tu possa sentirti offeso da questo appunto. Lo sai benissimo anche da te. Che ci fa un vecchio, in queste giornate fredde, su uno sgabellino, per strada? Che domande, stringe il suo violino, ovviamente. Se fossi una di quelle persone che percorrono questa via in un altro orario, se fossi, per dire, uno di quelli che passano mezz'ora più tardi, senza questa fretta umida addosso, avresti voglia di chiedergli qual è la storia, di questo violino. Come gli è finito in mano, attraverso quali casi della vita, coincidenze e necessità. In mano ad un così improbabile musicista, che si comporta in modo così inusuale. Non ha la mente immersa in chissà quali melodie, non insegue una vana ispirazione, lontana da queste strade, estranea a queste persone. Con mano ferma muove l'archetto sulle corde solo quando vede passare nei paraggi un gruppo consistente di persone. Non finge di impegnarsi in chissà che scale, muove l'archetto senza sentire il bisogno di cavarci qualche nota in particolare, qualche battuta. Il suo non è suono di arie, o mazurke, o sonate, è suono di corde che vibrano, perché scosse. Il testo che le accompagna un piccolo mantra, buongiorno, buongiorno, buongiorno. Ripetuto finché non sei troppo lontano. E' musica un poco strana, ci metti un attimo ad inquadrarla: post-punk? Potrebbe essere noise-jazz (esiste, il noise-jazz?), ammesso che non si pretenda alcuna coscienza dal noise in questione. Nel testo rieccheggia un po' di quell'isterismo della letteratura del Novecento, ma non saprei dire di più. E', forse, che qualche moneta gli fa comodo, ed è quella la musica che meglio esprime questa ispirazione e questa sensazione da trasmettere. Un piccolo preciso spettacolo, senza tutta quell'arte a ficcarsi in mezzo, un modesto tentativo di attirare l'attenzione, trasmettere un messaggio, incassare quello che dal messaggio deriva. Un poco, giusto quello che c'è, commisurato all'impegno, in fondo, nulla di più.

La sera staccherò prima degli anni, in fondo il mio non è un vero lavoro. Non dovrei essere imbottigliato nella folla, come al mattino. Dovesse esserci ancora, la mia moneta se la sarebbe guadagnata. Avesse fatto un disco, glielo comprerei. Difficile trovarlo di nuovo, però; spero in domani. Io, da canto mio, avevo iniziato a suonare l'angolo del biglietto del tram, accartocciato, appena salito sul tram. Abbiamo tutti la musica dentro, dicono, amico, anche se non c'ho mai creduto granché.

giovedì 12 novembre 2009

The noodly appendage


Giusto per non abbandonare per troppo tempo questo blog al suo destino (la solita lista di post da scrivere se ne sta lì, immacolata, e gli ultimi argomenti rimasti scoperti sono la sortita inappuntabile della Santanché, il dumping sociale, la recensione di una mostra d'arte contemporanea), continuiamo con il filone giudizi sommari molto poco argomentati. Se in questo perqMdo mi sto lentamente convincendo che il miglior attacco mus`cale d'album sia l'inizio musicale di "21st century skizoid man" in In the court of the Crimson King, sono assolutamente certo che il miglior attacco "letterario" d'album sia la prima parte di L'evoluzione, in Darwin!.

Prova, prova a pensare un po' diverso
niente da grandi dei fu fabbricato
ma il creato s'è creato da sé
cellule fibre energia e calore.

E più riascolto questi testi, più ho l'impressione che la differenza maggiore tra credenti e non non sia filosofica, od etica (ovviamente non ontologica). E' una differenza di gusto e sensibilità. "Cellule fibre energia e calore" farebbe drizzare i capelli in testa a molti. Per me è il più bel affresco che si possa dipingere.

P.s.: quell'album, oltre ad essere una prova in più dell'enorme valore del genere progressive (il più bistrattato dei generi musicali), conferma ulteriormente il ruolo di primo piano giocato dalle band italiane nel campo. (e che i Pfm col cavolo che sono stati l'apice. Loro un album come Darwin! o Uomo di pezza non l'hanno mai fatto)

mercoledì 4 novembre 2009

Fuck off, E.T.! We want Howard!

Al momento, saldamente in testa alla mia classifica personale "Grandi occasioni perse nella musica" c'è la canzone Extraterrestre di Finardi. Un testo splendido, della musica potenzialmente piacevole, un'esecuzione ed un arrangiamento (almeno nella versione di studio, non ho mai ascoltato versioni live) disastrosi, che in più punti cadono inesorabilmente nel ridicolo.

martedì 3 novembre 2009

Allora...sostituiamo baby con Jesus...

Era fin troppo scontato che scrivessi un post sulla faccenda del giorno, eh? Allora giro al largo, e butto lì qualche sommaria e non ben costruita riflessione corollaria, venuta leggendo più che altro i commenti lasciati sul sito del Corriere.
  • Uno dei miei blog preferiti è sempre stato Wittgenstein. Apprezzo molto i ragionamenti di Sofri, mi capita spesso di entusiasmarmi per la sua ironia, trovo geniale il modo in cui utilizza lo strumento comunicativo "blog". Non ho mai concordato però con quella cosa di non ospitare commenti. Forse mi sto ricredendo, però.
  • Alla luce di quella poco attraente accozzaglia di commenti, spesso un grumo di rancorose invettive, visione non nuova tra le pagine di interventi dei lettori, almeno su quel sito, posso trovare un pochino più comprensibili le (tuttavia infondate) reticenze e diffidenze, nei confronti della rete, della blogosfera, ecc. ecc, da parte dei giornali. Certo, a voler essere pignoli, parte della colpa è forse degli stessi quotidiani italiani, che invece di sfruttare le opportunità offerta da internet, ospitando nei propri siti ampliamenti, approfondimenti, contenuti nuovi rispetto alle edizioni cartacee, cogliendo il potenziale a disposizione, creando sul web una versione meno generalista e "sbrigativa", creando un polo capace di attrarre e stimolare le persone più interessante ad informarsi, capire, discutere con civiltà, si limitano a copincollare gli articoli che già si trovano in edicola, riducono i contenuti nuovi a gallerie di foto seducenti, o divertenti, o stravaganti, mettono a disposizione solamente qualche piccolo video o file audio. In questo modo si crea un ambiente fertile per la riproduzione dei soliti commenti da bar, per come la vedo io.
  • Il fatto che ci si accanisca a definirla "quella signora finlandese" (quando l'articolo, sperando sia corretto, spiega chiaramente che si tratta di una cittadina italiana, di origine finlandese) e che la si inviti a "tornarsene a casa, se non le va bene qui" (quando è questa casa sua), la dice lunga sul perché in Italia i problemi di integrazione e di rispetto dello straniero travolgano ogni precisione ed ogni buonsenso. Travolgano la cittadinanza stessa. Poi non stupisce che di fronte ad una proposta bipartisan, moderna, colma di buonsenso (scusate la ripetizione) come quella sulla cittadinanza, si alzino simili barricate. Ciò che stupisce è vedere che a parlare di radici italiane, di nostra cultura, di tradizioni nazionali, di indipendenza, rispetto ed onore del paese, siano persone pronte in un attimo a calpestare senza la minima remora quell'istituto giuridico che stabilisce chi sia italiano o meno, chi sia un nostro compatriota e chi un "intruso", che cementa la patria da difendere.
  • Tra i mille paragoni strampalati che vengono tirati in ballo (strampalati perché il torpore da ufficio non mi concede abbastanza grinta per definirli oltraggiosi, fuorvianti, imbecilli), quello più ricorrente (et dai) è quello con il burka. Questi s*****i vengono qui a comandare da noi e ci fanno togliere il simbolo più importante della nostra cultura(sic)? Allora che vadano pure dalle mussulmane a far togliere loro il burka. Non entrando nel merito della questione (una simile questione semplicemente non ce l'ha, un merito), basta una piccola annotazione, per liquidare il tutto. Non vale minimamente la pena di badare chi, non cogliendo la piccola differenza tra un crocifisso esposto da una istituzione pubblica e statale ed un capo indossato da un privato cittadino (o da una persona, anche se priva di cittadinanza. Non vedo dove stia la differenza), dimostra di non riuscire a capire nemmeno l'abc del tema, figuriamoci le sue implicazioni più profonde.
  • Nonostante ripetute precisazioni fornite da più di un commentatore (la Corte in questione non è la Corte di Giustizia della CE, la Corte in questione non ha niente a che vedere con la CE o l'UE, la Corte in questione è stata istituita con un trattato completamente indipendente, precedente, nato in un altro contesto e con altre motivazioni, ogni possibile azione riguardo il fatto è regolato da norme apposite di diritto internazionale, quindi non dal diritto comunitario, quindi non dalla nostra voglia di far cagnara), si tira sempre in ballo l'Europa. Giusto oggi c'è stata la ratifica ceca del Trattato di Lisbona. Una cosa di quelle grandi, eh, ed importanti, per quanto sicuramente non avrà il giusto risalto e nessuno si prenderà la briga di spiegarne il valore. Tra il materiale che sto leggendo in questo periodo (e le conferenze a cui sto partecipando) molto ha a che vedere con l'Europa, il processo di integrazione, le aspettative ed esigenze future (qui a Torino è molto forte il movimento federalista). Mi è capitato più volte, solo in questi ultimi giorni, di sentire critiche al modo in cui si è deciso di procedere (detto in parole povere: più intergovernativo, gestito a livello "istituzionale", cercando di evitare, spesso, l'intervento dell'elettorato) dopo le prime bocciature referendarie, accuse all'opacità dei processi decisionali a livello europeo, richiami vibranti alla necessità di una maggiore democratizzazione di quelle istituzioni. Io non sono un europeista della prima ora, ne ho impiegato di tempo a "convertirmi" a questa posizione, è stato un percorso ricco di tentennamenti, ma ora posso definirmi "abbastanza" europeista. E nonostante tutto, non posso che preoccuparmi per il tanto seguito accademico e non che queste "anime belle" riscuotono. Non è cinismo, non è mancanza di spirito democratico: lasciamo l'Europa in mano ai cittadini, e manderemo allo sfascio uno degli esperimenti politici più importanti degli ultimi decenni. Le opinioni pubbliche non hanno mai capito questo progetto, non l'hanno mai sostenuto fermamente e con coerenza, neanche nei suoi momenti di maggiori popolarità. Non riescono a capirlo nemmeno quando comporta per loro benefici diretti ed immediati, figuriamoci quando richiede sforzi, pesi, rinunce. L'Europa è qualcosa che va portato avanti a scapito di elettorati, popoli, ecc. ecc. Gli esempi sono mille, scegliere di non guardarli è il modo migliore per far crollare la baracca.
  • Riprendendo il discorso sopra. Sarò cinico, ma in barba alla linea che va per la maggiore, io considero una fortuna, un bene ed una cosa naturale e giusta che la politica estera sia uno dei temi più "vischiosi", su cui gli umori dell'opinione pubblica hanno meno influenza diretta. La democrazia rappresentativa (che poi di democrazia indiretta si tratta, per quanto l'aggettivo indiretta ci faccia impallidire, con i sospetti che ci fa sorgere) non è solo un fatto tecnico, un succedaneo necessario della migliore democrazia diretta, quando questa per cause di forza maggiore non sia praticabile. E' un modello diverso, e per molti punti di vista migliore. Sta ad indicare che il governo, la politica, la res pubblica sono cose serie, e certo che ho la possibilità di dire la mia, e di parteciparne alla gestione, ma questo dovrebbe essere fatto attraverso un meccanismo che permetta di affidare la gestione diretta a qualcuno dotato di competenze per farlo, possibilmente migliore di me. E' la questione dell'elitismo, su cui non mi addentro, perché Sofri ne ha scritto in modo più chiaro e convincente di quanto io possa anche solo sognarmi.
  • No, non lo dico, cosa penso sul tema. Perché credo che sia possibile, e doveroso, forse, mettersi a spiegare sul perché non sarebbe il caso che i crocifissi stiano nelle scuole. Ma le motivazioni sono immediate, ovvie, risiedono nel buonsenso più che nell'argomentazione razionale. Quindi, mille sforzi per spiegare, convincere, non smuoverebbero di un millimetro chi fa muro contrario. Sarebbero impegno, energie, parole buttate al vento. Si ricaverebbe solamente un'ulteriore dose di scoramento, e ci ritroveremo a provare a nostra volta, di rimando, un certo grado di astio, che rischierebbe di far perdere lucidità alle nostre posizioni.

Appunti sparsi su sfondo giallo. Post(-it)

Ovvero: Finché non ti ritrovi invischiato in traffichi da ufficio, non diresti mai quanto delle piccole cose possano essere indispensabili.

  • Un post di quelli sconclusionati ed autoreferenziali, per punti. Per non lasciare troppo a lungo il blog non aggiornato, per tenere informati quei due che lo leggono (che non sento granché, o a cui non riesco mai a raccontare tutto quello che vorrei) di alcune nuove.
  • In barba al ciclo naturale dei prodotti, quella fase di obsolescenza che già pure aveva dato ampi segnali, e sembrava avanzare galoppante, se la batte ora in sonora ritirata. Mi (ri-)innamoro ogni giorno di più di tutto quello che ho scelto di studiare, di tutto ciò che per gli ultimi cinque anni ha ricoperto un ruolo (ora più, ora meno) importante nella mia vita. Leggo saggi, controllo la stampa internazionale, provo ad immaginare progetti futuri, e possibili percorsi per quelli imbastiti. Vorrei passare la vita ad avere a che fare con questo campo. Perché è importante, denso, vivo e vitale. Sottovalutato, sbeffeggiato, questo campo ha imparato a portare la croce, a muoversi sotto la sassaiola dell'ingiuria, tirando avanti quel carro su cui, in fondo, tutti stanno. Non potendo contare sulla solidità della scienza, né sulla inutile presunzione di sé di altre scienze sociali, non può che andare avanti a tentoni, cercando di migliorarsi passo dopo passo, senza perdere d'occhio il sentiero, tenendo a mente, e controllando, i passi precedenti. Adoro questo campo.
  • Sto cambiando. Che stia (forse) maturando? Quando mi capita di avere a che fare (di persona, o attraverso l'intermediazione con la carta) con qualcuna di quelle anime belle che sognano, sognano, e con la loro confortevole utopia occupano ogni spazio e marchiano di infamia, e radono al suolo, ogni piccolo tentativo, ogni sforzo un po' tentennante di salire almeno di un altro gradino, riesco, adesso, a trattenere uno sbuffo di sprezzante cinismo, tenere addomesticata la pazienza, usare con impegno e soprattutto volontà, ed entusiasmo, la forza delle idee striscianti, del buon senso, richiamare la multiformità del mondo, dei fenomeni, il loro intrecciarsi in modi del tutto non deterministici. Credo che sia maturare, questo.
  • Ho avuto, per la prima vera volta, fortuna. E con gli interessi, potrei dire: una botta di fortuna che mi lascia incredulo. Si potrebbe forse dire per la seconda volta, ma in quell'altro caso non sono così propenso a catalogare il tutto come fortuna. Perché se ritrovarsi spinti in modo che i nostri spazi vitali si tocchino, e si intreccino, costruire qualcosa, scegliersi ed unirsi non è certo governato dal fato; è prodotto umano. Sono riuscito ad accomodare la questione stage, quando tutto sembrava impossibile. Lo stesso, per l'alloggio. E, tra necessità e difficoltà, se ne sono uscite due soluzioni che sono ben lontane dall'essere una grigiastra ultima risorsa. La soluzione "lavorativa" (fa sempre un certo effetto chiamarla così, quando non è un lavoro) mi permette di passare il tempo a leggere e documentarmi, appunto, e visitare centri ed istituzioni che si occupano nella pratica di cose che io finora ho visto solo stampate nei libri. Di incontrare persone che lavorano in questo campo da anni, e sanno mettere una passione invidiabile in quello che fanno. Il direttore è gentile, attento, ed ho incontrato poche persone, finora, nella mia vita, che sapessero chiacchierare di politica internazionale in modo così interessante e coinvolgente. L'appartamento è bello, in una zona comoda e piacevole. Viverci è rilassante e piacevole; i coinquilini simpatici, gentili, premurosi. Se mi spaventa un po', l'idea di dover dividere casa con degli sconosciuti, per me che non l'avevo mai fatto prima, per me che ho delle abitudini e dei ritmi non molto ortodossi, beh, non potevo capitare in posto migliore, in cui potermi sentire a mio agio. Ho avuto fortuna che si trattasse di questa città, e considero la possibilità di viverci un poco un grande privilegio. A voler ben guardare, non si può nemmeno parlare di fortuna, anzi. Il tutto durerà ancora meno di due mesi, ed è iniziato neanche da uno. Già so che mi si chiuderà un po' lo stomaco, per il magone, al dover voltare una bella pagina. Sì, in fondo non c'è nessuna fortuna, nel vivere qualcosa di così bello, giusto il tempo di legarci abbastanza per stramazzare di nostalgia, quando ci sarà tolto. E nessuno mi citi Byron, per dio.
  • Per la prima volta mi sono davvero convinto che sia possibile coniugare e far convivere il "I know what's right, i got just one life", con tutto ciò che questo lascia intendere, al di là del senso concreto che ricopre nella canzone (I won't back down), ed il "se la vita è una sola, stai in campana" (Stai in campana). Di più, che sia fondamentale, e doveroso, farli convivere, per chi vuole sfruttare al massimo le opportunità sotto il sole. E la soluzione è un po' quella indicata dal famoso aforisma sulla libertà (la mia libertà finisce dove comincia quella dell'altro, etc). Una frase che ad un amico non piace per nulla, ma che, in fondo, ripulita da quello strato di retorica incrostata, mi ha sempre affascinato. Perché se la prendiamo dal lato "assolutizzazione del relativo" (detta in modo spiccio: questa cosa è piccola e relativa, piena di limiti e confini, di se e di ma, ma facciamo finta che sia una cosa enorme, la più grande di tutte, mettiamola a fondamenta della nostra civiltà come moloch granitico, intoccabile), beh finisce per sembrare una stronzata ovvio (ops. L'ho detto. Ho detto la parola con la S. Facciamo finta di niente). Ma c'è pure l'altro lato, la "relativizzazione dell'assoluto" (di nuovo in modo spiccio: questa è una cosa grandissima, importante, necessaria, cioè che caratterizza più di molte altre cose il nostro sistema. Ma è grande nella misura in cui, passando dalla filosofia, dalla retorica, ed entrando nella realtà, nel vissuto, sa spogliarsi dell'autoreferenzialità, della violenza, sa mischiarsi con il buonsenso e la tolleranza, sa "sporcarsi le mani" con il mondo, adattarsi, riempire ogni spazio libero, e non crollare come un blocco di pietra, dal peso insopportabile, che finisce per schiacciare tutto. La libertà è laica, o non è, si potrebbe dire). Non divaghiamo. Dicevo, queste due linee, per certi versi opposte, possono convivere, ed è proprio questa la ricetta. Ampliare, gonfiare l'una, il più possibile, fino all'ultimo centimetro prima del confine ultimo, in cui finisce per toccare l'altra. Un sapiente gioco di bilancini ed equilibri. C'è un tempo per osare, ed uno per aspettare. Ed è sempre tempo di evitare gli estremi.
  • Il profilo di rigido controllo economico è un ottimo approccio al mondo artistico. Boom. Parole grosse. Ma pensateci un attimo. Anche adottando un metro di giudizio rigorosissimo, scremando le opere dal valore mediocre o perfino solamente "discreto", dai veri capolavori, rimane una massa così enorme dall'essere assolutamente eccedente rispetto ad ogni nostra disponibilità di tempo, energie e denaro. E non è possibile trovare un modo razionale ed intelligente di selezionare intellettualmente ciò su cui concentrare la propria attenzione, a meno di non autoilludersi, e prendere per buona una sistemazione non convincente, in realtà. Per quanto riguarda me (ma mi guardo bene dal consigliare questa soluzione in giro), trovo che l'adozione di un parametro economico (compensato, certo, non assoluto) sia un criterio migliore di tanti altri. Per 10,90 mi sono portato a casa una raccolta (quintupla!) della regina del fado, Amalia Rodriguez; per 15 circa quattro libri usati, Il demone e La croce buddista di Tanizaki, Il padiglione d'oro di Mishima, L'isola del dottor Moreau di Wells.
  • La lista, su un quadernetto, dei post da scrivere è diventata decisamente lunga, saremo a quota otto o nove, credo. Principalmente a tema musicale.
  • Sto iniziando a perdere un po' di capelli, pare. Stanno iniziando ad ingrigirsi, pure. Il dramma, in tutto questo, è che il tasso di velocità del primo fenomeno sembra essere più veloce di quello del secondo. Rischio, potenzialmente, di ritrovarmi pelato prima di aver avuto la possibilità di diventare un fascinoso brizzolato. Sono cose che fanno riflettere.

venerdì 23 ottobre 2009

New York Telephone Conversation


-Pronto, Renato? Sono Io. Guarda, sto chiamando un po' tutti, ho visto questa cosa. G-e-n-i-a-l-e! E mi è venuta un'idea, dobbiamo proprio lavorarci su. Come? Ah, cosa intendo? Non ci crederai, ma ho visto una cosa. E' tipo un carro, ci butti dentro della benzina, e questo va da solo, eh! Ma veloce, dovresti vederlo! Fidati, garantisco io, la più grande invenzione of ever. Non troveranno mai niente di meglio. E qui ti arrivo io, giustamente, con un'idea fenomenale. Quest'aggeggio, fantastico, giusto un po' scomodo per la manovella da girare ogni tanto, ha tutti i pregi del mondo, ma non va sull'acqua. Per cui ho pensato, per quell'isoletta laggiù: un bel ponte! Come dici Renato? La Sardegna? Mah, son strani quelli, e se ne stanno lontani, per conto loro...e poi senti, si son voluti Soru, fino a poco fa? Che si arrangino, va'! E non mi interrompere, cavolo! Dicevo, facciamo un bel ponte, serve un po' lungo, vabbè, ma in qualche modo facciamo. E poi sai cosa? Ascolta la trovata. Quand'è finito, e lo inauguriamo, ci passo per primo io, a piedi (un pezzo Renato, giusto per la scena), arrivo, con tutta la folla festante sotto, alzo le mani e faccio: avete visto? E l'abbiamo fatto per voi, perché io potevo anche camminare sulle acque. Che forza, eh, Renato!
Come? Cosa dici, Renato? Parla chiaro, cavolo, che non ti capisco. L'internetto? Veloce, per tutti? Aah, Renato, lasciami perdere 'ste mode cavolo, che poi passano! T'ho detto che l'ho già trovata, l'innovazione più grande di sempre.

(Lo dico chiaro e tondo, mi vendo spudoratamente. Se Renato mi sostituisce il 56k con una rete ADSL, diventa il mio ministro preferito. Of ever)

mercoledì 21 ottobre 2009

Rat race

E' sempre quel misto di aspettativa e previsione che ti frega. Si parlava di città austera e decadente. Sono arrivato qui, un po' ingenuo, con quest'idea nella testa. Torino città di grandi glorie, che furono e non sono più, e spesso è proprio questo residuo, questa vernice imbruttita che resiste alla ruggine, a brillare di più, in fondo. Città chiusa nei propri ricordi, che corre col bavero alzato e mille grandi pensieri in testa, tra le vie squadrate, che si incrociano puntuali e rigorose, spazzata da un'aria gelida. Allampanata, assente.
Una città in cui tutto stia al suo posto, come in un salotto curato. La famiglia è decaduta, ma nobile, sa ancora riconoscere gli antichi valori, dare il giusto peso alle cose della vita. Tutto il tumulto è là fuori, in terre lontane e straniere. A Milano, che se ne sta in mezzo a questa pianura che noi giusto tocchiamo, per non farcene contaminare troppo. A Roma, che è un altro mondo. C'hanno rubato tutto, ma in fondo al prezzo di diventare dei formicai. Noi sappiamo come stare al mondo, noi in fondo saremo sempre un poco più accorti, più saggi e soprattutto più eleganti.
Non c'è alcun bisogno, di correre nella vita. Che porterebbe, se non sudore? Che altro? Basta poca esperienza, per capire che tutto ciò che si può cavar fuori dalla vita, se ne esce da una strada più piana, e dritta di quanto si immagini, trovata con tenacia e costanza, che si è saputo scovare con cocciuta razionalità.

Questa Torino esiste. In piccole riserve, in tracce sparse, spesso così impalpabili che ti lasciano il dubbio. Diresti quasi che sia stato un abbaglio, un'allucinazione. La mente testarda che si rifiuta di ammettere i propri errori e si costruisce prove false. Sono fantasmi, che scuotono le loro catene e nulla più. Il resto della città, quasi la totalità, è invece un groviglio di nervi, costantemente impegnato a buttar fuori un caos molesto.

L'esempio più immediato da cogliere è dato dal traffico. Se in molte altre zone settentrionali, nella stessa zona da cui provengo, per esempio, il codice stradale è un insieme di propositi indicativi per il quieto vivere, derogabili di volta in volta dal buon senso, o in presenza di casi particolari (nello specifico, è sempre il nostro, il caso più particolare), a Torino ci si spinge. Non esiste, a Torino, questa barbara usanza di cambiare le regole a proprio piacimento. A Torino la gente è seria, a Torino si seguono le norme. Certo, ciò non toglie che a Torino viga un codice della strada diversa. Bastano pochi giorni di permanenza in città per cogliere una ad una le differenze, esattamente come è possibile cogliere tutti i diversi costumi, da stranieri in una nuova terra. E' il semaforo, soprattutto, a dare segnali del tutto nuovi. Quel giallo luminoso, ammiccante, ci sorride bonario, confermandoci che tutto è a posto, possiamo andare tranquilli, senza pensieri. Ci pensa lui a farci da scudo e possiamo correre spensierati. A seguirlo c'è il rosso, e basta lo stacco cromatico a farci capire che qualcosa è cambiato. Il rosso è un colore ben più impegnativo, il rosso vuole metterci in guardia. Lo capiamo subito che si rivolge a noi, con quella sua sfrontata pienezza. Il rosso ci guarda, e sicuro ci sta interrogando. Non possiamo farci prendere dall'insicurezza proprio ora, nel momento della sfida. Perché, sì, il rosso c'ha sfidato, c'ha colpito con il suo guanto. Possiamo fermarci, rinunciare, uscirne sconfitti marchiati d'infamia. O, se siamo veri uomini, possiamo mostrare la nostra tempra, mettere in chiaro che nulla è al di là della nostra portata. Perché, in definitiva, il rosso pretende solo una cosa da noi: che guardiamo dentro noi stessi, soppesiamo il nostro valore, e lo mettiamo alla prova affrontando e superando la sfida. Il rosso è autocoscienza. Torino è una città di tori che non si fanno ammansire da semafori; il rosso è il colore del sangue che ribolle nelle vene del collo dilatate, nella corsa furente.
Data l'enorme portata dei due colori qui descritti, la loro polarità tra bene e male, sicurezza e tremendo dubbio, tutto sembra esaurito, ed il significato del verde non è pervenuto.

Non ci sono terze vie nelle strade di Torino. Si può essere solo un animale che lotta per non farsi soffocare da un mare di asfalto; sopravvivere o cadere nella corsa. E nel rullare incessante di arti al galoppo, ci sono solo versi disperati a spingerci avanti. Quell'urlo animale che attraversa, in ogni momento, le strade di questa città.

Torino è una città molto più rumorosa di quanto pensassi.


martedì 20 ottobre 2009

Non escludo il ritorno

Faccio outing. Tanto qui, a raccontarci le nostre cose, siamo in quattro gatti. E' un outing sussurato diciamo, un po' biascicato. Da paraculi, a voler essere sinceri; se vi girate e mi chiedete che ho detto, sono bell' e pronto a negare.

A me piace il calcio. Il calcio mi piace molto, se vogliamo dirla tutta. Certo, c'è stato un recente ritorno di fiamma, che mi permette temerariamente di uscirmene con questa sparata.

Mi piace il calcio per due motivi. Per il suo tatticismo esasperato, capace di ammazzare anche il genio, lo spettacolo, la grinta e la voglia. Per quell'ammassarsi di numeri, statistiche, schemi e movimenti, con l'intento di preparare la battaglia fino all'ultimo dettaglio.

Mi piace il calcio perché è mitologia. E' un intreccio di storie, di casi, di fatti umani. E' una galleria di eroi che eroi non sono per nulla. Perché diciamocelo, questi corrono e calciano una palla. Ma eroi lo diventano, un po' per quel loro considerarsi tali, al di là di ogni evidenza, del più comune buonsenso, di un anche misero senso del pudore. E lo diventano per ciò che riescono a scatenare in tante persone.

Ripenso un attimo alle mie mitologie da bambino. Guarda caso, spesso avevano a che fare con l'Africa. Quel marziano di Phil Masinga, l'abissale inutilità di Ba, la stolida grandezza di West, la mia passione per Mboma e quell'enigma inspiegabile di Jay-Jay Okocha. Mi ricordo che mi innamoravo dei giocatori più improbabili, eppure non era una posa. Mboma, appunto. Rapaic, quel genio inafferabile di Nakata, bisognerebbe raccontarla la sua storia. L'indomabile Schwoch. Dovrei scriverne ogni tanto, un'epica figura alla volta.

Forse non lo farò mai, e spererò che questo outing sia caduto nel vuoto. In fondo, era giusto una scusa per dire che oggi è tornato. Lui era il più grande di tutti, per me.

venerdì 16 ottobre 2009

Qualche novità, sul fronte occidentale


Quel cambiamento di cui si parlava, qui e lì, su questo blog, prima o poi ti piglia. Ti passa alla centrifuga, e sei hai la forza (od il culo, diciamocelo) di uscirne tutto intero, ti lascia una pungente, ma piacevole, sensazione di spaesamento e barcollamento. Come un tagadà, od un paio (è un po' di più, lascio?) di birre buone.

Dopo aver chiuso un primo capitolo (come, cripticamente, da post precedente), si è riusciti ad aprirne un altro, nonostante sia sembrato quasi impossibile, prima un passo e poi un altro, che non volevano saperne di lasciarsi ammansire. Pane (insomma) e tetto, perché dopo tutto sempre questa rimane, la lotta per la sopravvivenza. In scala minore, ovviamente, perché tutti sembrano considerarci ancora troppo "piccoli" per la vera vita, quella cinica e bara, e forse abbiamo finito per crederci anche noi.
Ho trovato un posto, da solo. C'entra, davvero, con quello che ho studiato fin qui. Il mio compito si prospetta stimolante, una sfida per molti versi, avrà certo un andamento altalenante, come impegno, e per ora si è trattato della fase di secca. Si aspettano i tempi migliori, ed intanto ci si gode una città austera e decadente, la possibilità di veder passare di fianco a te nomi che finora avevi solamente potuto leggere sui giornali, la sensazione lasciata sulla pelle dall'esplodere delle bollicine frizzanti, là dove sgorgano le idee (e sui giornali, di ciò che ha detto Draghi, c'è stata una gran strumentalizzazione).

E non poteva che accadere sul fronte occidentale, tutto questo. Perché su quello orientale sono le piccole truppe, con le armi giocattolo, a muoversi, a mimare la guerra, ma tutti sanno che è solo un espediente, un'altra linea su cui tenere impegnato il nemico, sfiancarne la forza, spezzarne la tenacia, ma da cui non si può cavare nulla di buono. Lo sanno tutti, tranne quei miseri generali schierati, le capocchie di spillo che pensano di poter essere nuovi Napoleone.
Non poteva che essere ad Ovest. Verso Occidente l'Impero volge il suo corso. E seguendo il sole si muovono tutte le migrazioni, nella speranza di trovare là un posto un poco più caldo.
Ci siamo uniti ad una carovana, allenando i nostri occhi a seguire orme, a scovare sentieri, a spaziare per le praterie. Ci siamo creduti pioneri, ma nel nostro piccolo, con garbo. Ché tanto, arriverà il nuovo anno e sarà tutto finito, ma almeno è stato. Avremo giocato a fare i grandi. Combattere una battaglia, mandare avanti una casa, essere dottori del sé.

Io provo e cado e provo
e ritto sto per un momento...
e bevono i miei occhi i voli, i salti
le mie foreste e gli altri.
E dove l'aria in fondo tocca il mare (beh, non proprio...)
lo sguardo dritto può guardare.

(Avrei potuto mettere Abramo non partire, non andare, non lasciare la tua casa, cosa speri di trovar; ma che sia chiaro, che non si porti sfiga qui)



giovedì 15 ottobre 2009

Conquistando Alemannia

Uno dei miei versi preferiti (probabilmente il mio verso preferito) è stato a lungo "I'm worse at what i do best, and for this gift i feel blessed". Non c'è bisogno che vi dica da che canzone è tratto, immagino. Oltre ad essere bello dal punto di vista letterario -quella fila di parole brevi, una dopo l'altra, ficcate nella prima parte della frase, che trasmettono all'occhio ed all'orecchio in modo inequivocabile, e tangibile, la concitazione che deve attanagliare emotivamente la persona che ci sta parlando- è magnetico nei contenuti, nel concetto che butta lì, sul tavolo, ed ora non puoi più ignorarlo. E', con ogni probabilità, il verso che meglio simboleggia ciò che il grunge è stato, ciò che ha significato, il motivo per cui ha avuto tanta presa su quella generazione.

Ne è passato di tempo, uno dopo l'altro hanno fatto capolino altri "versi preferiti" (al momento, per esempio, sarei pronto a mettere la mano sul fuoco che il verso più bello di tutti i tempi è "You're a bully and a clown, you make cry and put me down", The Jeep Song, The Dresden Dolls. Non sarei altrettanto propenso, però, nello scommettere sull'immortalità di questa mia granitica certezza) e preda dei miei mille revisionismi sono arrivato perfino a dubitare che quel verso ce l'abbia, un senso -un senso autentico e genuino, intendo. Ovvio che non ce l'ha, com'è forse possibile provare una simile sensazione senza aver compiuto un monumentale lavoro, su di sé, di autoconvincimento, al fine di riuscire ad assumere una posa tanto teatralmente intrigante? (è nel solco maudit che attraversa tutta l'arte moderna, da Baudelair fino a Morrison, infine riciclato, nel nuovo spirito dei tempi, da Cobain). E la butto lì, pesante come un macigno: in fondo il grunge non era altro che quella posa con cui ci piaceva atteggiarci.

Ne è passato di tempo, dicevo, e molto è cambiato. Se capita che senta necessario ricordarmelo, in un attimo di smarrimento, in cui mi sembra che invece tutto rimanga uguale, nonostante il tempo, basta che recuperi, con la memoria, quel verso. E' come un estraneo, ora; ed invece, giusto qualche settimana fa, toh! La rivelazione. Ciò che ti fa sentire non solo benedetto, ma un dio stesso, è trovarsi, per un attimo, i migliori anche in ciò che -in teoria?- ci riesce peggio.

La storia è fatta di rivoluzione copernicane, già.

sabato 10 ottobre 2009

...love is all aroud you...

Se già la vita riesce ad essere sempre sorprendente, beh, nella musica, semplicemente salta tutto. Le regole, il banco, i limiti, la prevedibilità.

Capita, così, per dire, che la canzone d'amore più toccante e raffinata degli ultimi (quanti?) anni sia dedicata da un funghetto taciturno ed ansiogeno (che non sembra, così, ad una prima occhiata, la creatura più passionale) ad un idraulico baffuto, un po' sovrappeso, che gira sempre con una salopette.

And when you came in, i could breathe again...

mercoledì 30 settembre 2009

Lost in translation?


Non è qualcosa che si possa liquidare con una battuta e devo un attimo forzarmi, nel criticare qualcosa che riguarda la Germania, e che ha a che fare con la difesa a spada tratta della lingua tedesca. Detto questo, sentire il leader di uno dei partiti liberali più forti d'Europa, per di più candidato principale alla carica di ministro degli esteri di uno dei paesi più influenti, almeno in ambito continentale, pronunciare certe frasi mi fa sinceramente rabbrividire.

martedì 29 settembre 2009

La canzone che visse due (o più) volte


Parlare di musica è una gran bella cosa, no? (Parlarne nella vita reale intendo, non qui sulla carta stampata). È uno dei modi migliori per condurre una conversazione al tempo stesso intima ma non eccessivamente invasiva. Per farci un'idea di chi ci sta davanti, se è una nuova conoscenza. Pure per attaccare bottone con una ragazza.
Si può parlare di musica in due modi: scambiandosi giudizi, recensioni, consigli (io vi passo queste chicche, direttamente da Luca Sofri: “Sylvia Plath” di Ryan Adams e “Thank you Mario, but our princess is in another castle”) oppure filosofeggiando su grandi temi e questioni. Qui, oggi, ci diamo all'alta speculazione
Cover, si parla di cover. Niente classifiche, appunto (tanto siamo tutti d'accordo che la migliore sia All along the watchtower, Hendrix, e la peggiore Knockin' on heaven's door, Guns 'n Roses, giusto?). Sfrutto queste colonne che mi vengono concesse per arrivare ad una sistemazione definitiva del tema, una Bretton Woods del rifacimento di canzoni. Tanto perchè non mi capiti più di dover sentire cose del tipo Smell like teen spirit di Patti Smith (anche tu, Patti, figlia mia? Dopo una My Generation deliziosamente punk?).
Esistono due tipi di cover, così ad occhio. Quelle che della canzone non cambiano poi molto, e quelle che la stravolgono. Tralasciamo le prime -spesso solo un omaggio vibrante all'artista o alla canzone in sé; spesso, anche, migliori dell'originale (Lindo Ferretti che rifacendo con i C.s.i. Lieve cancella i Marlene Kuntz?). Altri artisti invece si dimostrano, a torto o a ragione, più temerari, abbandonano la navigazione a vista puntando dritti al mare aperto. Eccolo, il punto: che direzione dovrebbero prendere, perchè questo coraggio non li porti alla sciagura?
Astraiamo, per un attimo. In una canzone sono presenti due elementi. Il discorso è un po' l'antico dualismo forma-sostanza, anche se il contenuto è diverso, credo. Userei più che altro le parole tema ed emozione. Ogni canzone ha un suo tema. La tipa m'ha lasciato, la mia vita è un fallimento, non faccio altro che soffrire -questo grosso modo è il cuore del blues, per esempio. Ma queste situazioni possono essere vissute in maniera molto diversa, giusto? Lo vediamo nella vita di tutti i giorni. Mi trovo invischiato nel male di vivere? (il tema di Smell like teen spirit) Bene, può nascermi dentro una rabbia furiosa, un grido disperato (à la Nirvana); posso ritrovarmi prostrato e sopraffatto, senza essere in grado di muovere un solo muscolo (à la Tori Amos, un gioiellino in L'affaire d'amoreuse).
Eccoci, è qui che volevo arrivare. Nel fare una cover posso cambiare a piacimento l'”emozione”, ma questa deve avere un legame con il tema da cui parte. Un legame di vario tipo: può essere un'emozione alternativa a quella originale (di esempi ne ho già fatti); può essere l'emozione opposta (Imagine che si trasforma da nenia rassicurante e mielosa a terrificante, sublime disperazione nel momento in cui si prende atto dell'illusione su cui si regge, ad opera degli A perfect circle). Ecco, come si fa una buona cover. Abilità tecniche e buona fede non c'entrano niente. Stravolgere completamente una canzone non è un delitto. É tutta una questione d'intelligenza: capirne veramente il tema e saper sondare le diverse emozioni che questo può scatenare, scegliendo quella a noi più vicina. Oppure nascere Johnny Cash: in questo caso puoi fregartene, di queste menate.

Cinque cover imperdibili:
Imagine, A perfect circle.
Smell like teen spirit, Tori Amos.
Redemption song, Johnny Cash & Joe Strummer.
My Generation, Patti Smith.
Sexual Healing, Ben Harper.

Coming in from the cold


Nell'attesa del trasloco reale, facciamone uno qui, virtuale. Senza troppi pudori, portandoci dietro qualcosa di vecchio, lasciandoci alle spalle un po' di polvere.