venerdì 23 ottobre 2009

New York Telephone Conversation


-Pronto, Renato? Sono Io. Guarda, sto chiamando un po' tutti, ho visto questa cosa. G-e-n-i-a-l-e! E mi è venuta un'idea, dobbiamo proprio lavorarci su. Come? Ah, cosa intendo? Non ci crederai, ma ho visto una cosa. E' tipo un carro, ci butti dentro della benzina, e questo va da solo, eh! Ma veloce, dovresti vederlo! Fidati, garantisco io, la più grande invenzione of ever. Non troveranno mai niente di meglio. E qui ti arrivo io, giustamente, con un'idea fenomenale. Quest'aggeggio, fantastico, giusto un po' scomodo per la manovella da girare ogni tanto, ha tutti i pregi del mondo, ma non va sull'acqua. Per cui ho pensato, per quell'isoletta laggiù: un bel ponte! Come dici Renato? La Sardegna? Mah, son strani quelli, e se ne stanno lontani, per conto loro...e poi senti, si son voluti Soru, fino a poco fa? Che si arrangino, va'! E non mi interrompere, cavolo! Dicevo, facciamo un bel ponte, serve un po' lungo, vabbè, ma in qualche modo facciamo. E poi sai cosa? Ascolta la trovata. Quand'è finito, e lo inauguriamo, ci passo per primo io, a piedi (un pezzo Renato, giusto per la scena), arrivo, con tutta la folla festante sotto, alzo le mani e faccio: avete visto? E l'abbiamo fatto per voi, perché io potevo anche camminare sulle acque. Che forza, eh, Renato!
Come? Cosa dici, Renato? Parla chiaro, cavolo, che non ti capisco. L'internetto? Veloce, per tutti? Aah, Renato, lasciami perdere 'ste mode cavolo, che poi passano! T'ho detto che l'ho già trovata, l'innovazione più grande di sempre.

(Lo dico chiaro e tondo, mi vendo spudoratamente. Se Renato mi sostituisce il 56k con una rete ADSL, diventa il mio ministro preferito. Of ever)

mercoledì 21 ottobre 2009

Rat race

E' sempre quel misto di aspettativa e previsione che ti frega. Si parlava di città austera e decadente. Sono arrivato qui, un po' ingenuo, con quest'idea nella testa. Torino città di grandi glorie, che furono e non sono più, e spesso è proprio questo residuo, questa vernice imbruttita che resiste alla ruggine, a brillare di più, in fondo. Città chiusa nei propri ricordi, che corre col bavero alzato e mille grandi pensieri in testa, tra le vie squadrate, che si incrociano puntuali e rigorose, spazzata da un'aria gelida. Allampanata, assente.
Una città in cui tutto stia al suo posto, come in un salotto curato. La famiglia è decaduta, ma nobile, sa ancora riconoscere gli antichi valori, dare il giusto peso alle cose della vita. Tutto il tumulto è là fuori, in terre lontane e straniere. A Milano, che se ne sta in mezzo a questa pianura che noi giusto tocchiamo, per non farcene contaminare troppo. A Roma, che è un altro mondo. C'hanno rubato tutto, ma in fondo al prezzo di diventare dei formicai. Noi sappiamo come stare al mondo, noi in fondo saremo sempre un poco più accorti, più saggi e soprattutto più eleganti.
Non c'è alcun bisogno, di correre nella vita. Che porterebbe, se non sudore? Che altro? Basta poca esperienza, per capire che tutto ciò che si può cavar fuori dalla vita, se ne esce da una strada più piana, e dritta di quanto si immagini, trovata con tenacia e costanza, che si è saputo scovare con cocciuta razionalità.

Questa Torino esiste. In piccole riserve, in tracce sparse, spesso così impalpabili che ti lasciano il dubbio. Diresti quasi che sia stato un abbaglio, un'allucinazione. La mente testarda che si rifiuta di ammettere i propri errori e si costruisce prove false. Sono fantasmi, che scuotono le loro catene e nulla più. Il resto della città, quasi la totalità, è invece un groviglio di nervi, costantemente impegnato a buttar fuori un caos molesto.

L'esempio più immediato da cogliere è dato dal traffico. Se in molte altre zone settentrionali, nella stessa zona da cui provengo, per esempio, il codice stradale è un insieme di propositi indicativi per il quieto vivere, derogabili di volta in volta dal buon senso, o in presenza di casi particolari (nello specifico, è sempre il nostro, il caso più particolare), a Torino ci si spinge. Non esiste, a Torino, questa barbara usanza di cambiare le regole a proprio piacimento. A Torino la gente è seria, a Torino si seguono le norme. Certo, ciò non toglie che a Torino viga un codice della strada diversa. Bastano pochi giorni di permanenza in città per cogliere una ad una le differenze, esattamente come è possibile cogliere tutti i diversi costumi, da stranieri in una nuova terra. E' il semaforo, soprattutto, a dare segnali del tutto nuovi. Quel giallo luminoso, ammiccante, ci sorride bonario, confermandoci che tutto è a posto, possiamo andare tranquilli, senza pensieri. Ci pensa lui a farci da scudo e possiamo correre spensierati. A seguirlo c'è il rosso, e basta lo stacco cromatico a farci capire che qualcosa è cambiato. Il rosso è un colore ben più impegnativo, il rosso vuole metterci in guardia. Lo capiamo subito che si rivolge a noi, con quella sua sfrontata pienezza. Il rosso ci guarda, e sicuro ci sta interrogando. Non possiamo farci prendere dall'insicurezza proprio ora, nel momento della sfida. Perché, sì, il rosso c'ha sfidato, c'ha colpito con il suo guanto. Possiamo fermarci, rinunciare, uscirne sconfitti marchiati d'infamia. O, se siamo veri uomini, possiamo mostrare la nostra tempra, mettere in chiaro che nulla è al di là della nostra portata. Perché, in definitiva, il rosso pretende solo una cosa da noi: che guardiamo dentro noi stessi, soppesiamo il nostro valore, e lo mettiamo alla prova affrontando e superando la sfida. Il rosso è autocoscienza. Torino è una città di tori che non si fanno ammansire da semafori; il rosso è il colore del sangue che ribolle nelle vene del collo dilatate, nella corsa furente.
Data l'enorme portata dei due colori qui descritti, la loro polarità tra bene e male, sicurezza e tremendo dubbio, tutto sembra esaurito, ed il significato del verde non è pervenuto.

Non ci sono terze vie nelle strade di Torino. Si può essere solo un animale che lotta per non farsi soffocare da un mare di asfalto; sopravvivere o cadere nella corsa. E nel rullare incessante di arti al galoppo, ci sono solo versi disperati a spingerci avanti. Quell'urlo animale che attraversa, in ogni momento, le strade di questa città.

Torino è una città molto più rumorosa di quanto pensassi.


martedì 20 ottobre 2009

Non escludo il ritorno

Faccio outing. Tanto qui, a raccontarci le nostre cose, siamo in quattro gatti. E' un outing sussurato diciamo, un po' biascicato. Da paraculi, a voler essere sinceri; se vi girate e mi chiedete che ho detto, sono bell' e pronto a negare.

A me piace il calcio. Il calcio mi piace molto, se vogliamo dirla tutta. Certo, c'è stato un recente ritorno di fiamma, che mi permette temerariamente di uscirmene con questa sparata.

Mi piace il calcio per due motivi. Per il suo tatticismo esasperato, capace di ammazzare anche il genio, lo spettacolo, la grinta e la voglia. Per quell'ammassarsi di numeri, statistiche, schemi e movimenti, con l'intento di preparare la battaglia fino all'ultimo dettaglio.

Mi piace il calcio perché è mitologia. E' un intreccio di storie, di casi, di fatti umani. E' una galleria di eroi che eroi non sono per nulla. Perché diciamocelo, questi corrono e calciano una palla. Ma eroi lo diventano, un po' per quel loro considerarsi tali, al di là di ogni evidenza, del più comune buonsenso, di un anche misero senso del pudore. E lo diventano per ciò che riescono a scatenare in tante persone.

Ripenso un attimo alle mie mitologie da bambino. Guarda caso, spesso avevano a che fare con l'Africa. Quel marziano di Phil Masinga, l'abissale inutilità di Ba, la stolida grandezza di West, la mia passione per Mboma e quell'enigma inspiegabile di Jay-Jay Okocha. Mi ricordo che mi innamoravo dei giocatori più improbabili, eppure non era una posa. Mboma, appunto. Rapaic, quel genio inafferabile di Nakata, bisognerebbe raccontarla la sua storia. L'indomabile Schwoch. Dovrei scriverne ogni tanto, un'epica figura alla volta.

Forse non lo farò mai, e spererò che questo outing sia caduto nel vuoto. In fondo, era giusto una scusa per dire che oggi è tornato. Lui era il più grande di tutti, per me.

venerdì 16 ottobre 2009

Qualche novità, sul fronte occidentale


Quel cambiamento di cui si parlava, qui e lì, su questo blog, prima o poi ti piglia. Ti passa alla centrifuga, e sei hai la forza (od il culo, diciamocelo) di uscirne tutto intero, ti lascia una pungente, ma piacevole, sensazione di spaesamento e barcollamento. Come un tagadà, od un paio (è un po' di più, lascio?) di birre buone.

Dopo aver chiuso un primo capitolo (come, cripticamente, da post precedente), si è riusciti ad aprirne un altro, nonostante sia sembrato quasi impossibile, prima un passo e poi un altro, che non volevano saperne di lasciarsi ammansire. Pane (insomma) e tetto, perché dopo tutto sempre questa rimane, la lotta per la sopravvivenza. In scala minore, ovviamente, perché tutti sembrano considerarci ancora troppo "piccoli" per la vera vita, quella cinica e bara, e forse abbiamo finito per crederci anche noi.
Ho trovato un posto, da solo. C'entra, davvero, con quello che ho studiato fin qui. Il mio compito si prospetta stimolante, una sfida per molti versi, avrà certo un andamento altalenante, come impegno, e per ora si è trattato della fase di secca. Si aspettano i tempi migliori, ed intanto ci si gode una città austera e decadente, la possibilità di veder passare di fianco a te nomi che finora avevi solamente potuto leggere sui giornali, la sensazione lasciata sulla pelle dall'esplodere delle bollicine frizzanti, là dove sgorgano le idee (e sui giornali, di ciò che ha detto Draghi, c'è stata una gran strumentalizzazione).

E non poteva che accadere sul fronte occidentale, tutto questo. Perché su quello orientale sono le piccole truppe, con le armi giocattolo, a muoversi, a mimare la guerra, ma tutti sanno che è solo un espediente, un'altra linea su cui tenere impegnato il nemico, sfiancarne la forza, spezzarne la tenacia, ma da cui non si può cavare nulla di buono. Lo sanno tutti, tranne quei miseri generali schierati, le capocchie di spillo che pensano di poter essere nuovi Napoleone.
Non poteva che essere ad Ovest. Verso Occidente l'Impero volge il suo corso. E seguendo il sole si muovono tutte le migrazioni, nella speranza di trovare là un posto un poco più caldo.
Ci siamo uniti ad una carovana, allenando i nostri occhi a seguire orme, a scovare sentieri, a spaziare per le praterie. Ci siamo creduti pioneri, ma nel nostro piccolo, con garbo. Ché tanto, arriverà il nuovo anno e sarà tutto finito, ma almeno è stato. Avremo giocato a fare i grandi. Combattere una battaglia, mandare avanti una casa, essere dottori del sé.

Io provo e cado e provo
e ritto sto per un momento...
e bevono i miei occhi i voli, i salti
le mie foreste e gli altri.
E dove l'aria in fondo tocca il mare (beh, non proprio...)
lo sguardo dritto può guardare.

(Avrei potuto mettere Abramo non partire, non andare, non lasciare la tua casa, cosa speri di trovar; ma che sia chiaro, che non si porti sfiga qui)



giovedì 15 ottobre 2009

Conquistando Alemannia

Uno dei miei versi preferiti (probabilmente il mio verso preferito) è stato a lungo "I'm worse at what i do best, and for this gift i feel blessed". Non c'è bisogno che vi dica da che canzone è tratto, immagino. Oltre ad essere bello dal punto di vista letterario -quella fila di parole brevi, una dopo l'altra, ficcate nella prima parte della frase, che trasmettono all'occhio ed all'orecchio in modo inequivocabile, e tangibile, la concitazione che deve attanagliare emotivamente la persona che ci sta parlando- è magnetico nei contenuti, nel concetto che butta lì, sul tavolo, ed ora non puoi più ignorarlo. E', con ogni probabilità, il verso che meglio simboleggia ciò che il grunge è stato, ciò che ha significato, il motivo per cui ha avuto tanta presa su quella generazione.

Ne è passato di tempo, uno dopo l'altro hanno fatto capolino altri "versi preferiti" (al momento, per esempio, sarei pronto a mettere la mano sul fuoco che il verso più bello di tutti i tempi è "You're a bully and a clown, you make cry and put me down", The Jeep Song, The Dresden Dolls. Non sarei altrettanto propenso, però, nello scommettere sull'immortalità di questa mia granitica certezza) e preda dei miei mille revisionismi sono arrivato perfino a dubitare che quel verso ce l'abbia, un senso -un senso autentico e genuino, intendo. Ovvio che non ce l'ha, com'è forse possibile provare una simile sensazione senza aver compiuto un monumentale lavoro, su di sé, di autoconvincimento, al fine di riuscire ad assumere una posa tanto teatralmente intrigante? (è nel solco maudit che attraversa tutta l'arte moderna, da Baudelair fino a Morrison, infine riciclato, nel nuovo spirito dei tempi, da Cobain). E la butto lì, pesante come un macigno: in fondo il grunge non era altro che quella posa con cui ci piaceva atteggiarci.

Ne è passato di tempo, dicevo, e molto è cambiato. Se capita che senta necessario ricordarmelo, in un attimo di smarrimento, in cui mi sembra che invece tutto rimanga uguale, nonostante il tempo, basta che recuperi, con la memoria, quel verso. E' come un estraneo, ora; ed invece, giusto qualche settimana fa, toh! La rivelazione. Ciò che ti fa sentire non solo benedetto, ma un dio stesso, è trovarsi, per un attimo, i migliori anche in ciò che -in teoria?- ci riesce peggio.

La storia è fatta di rivoluzione copernicane, già.

sabato 10 ottobre 2009

...love is all aroud you...

Se già la vita riesce ad essere sempre sorprendente, beh, nella musica, semplicemente salta tutto. Le regole, il banco, i limiti, la prevedibilità.

Capita, così, per dire, che la canzone d'amore più toccante e raffinata degli ultimi (quanti?) anni sia dedicata da un funghetto taciturno ed ansiogeno (che non sembra, così, ad una prima occhiata, la creatura più passionale) ad un idraulico baffuto, un po' sovrappeso, che gira sempre con una salopette.

And when you came in, i could breathe again...