martedì 24 maggio 2011

Relazioni internazionali for dummies/1

A chi fosse un principiante, a voler fare i brillanti si può descrivere la materia di studi "relazioni internazionali" come un campo sterminato, a perdita d'occhio, delle teorie più balzane e disparate, allineate secondo il principio "tu provaci" (la presunta scientificità è infatti al massimo una vaga aspirazione; per riuscire in qualche modo ad arrivare a un sistema che permetta di spiegare contemporaneamente più di un fenomeno, o di azzeccare qualche previsione, l'unico metodo possibile -il metodo effettivamente usato, oggi- consiste nell'avanzare un numero sterminato di teorie, che finiscano per comprendere se non tutte le possibilità del reale -impossibile, si penserà- la maggior parte di esse. Questa applicazione alla buona dell'idea "tanti pesci nel mare" è conveniente per tutti: il pesciolino fortunato nel caso in questione ottiene una discreta fama, chi ha toppato non si vede presentare nessun conto -a patto di non uscirsene con il motto più stupido di sempre, come Fukuyama- la disciplina, presso l'opinione pubblica, non perde parte del suo credito, già giocato tutto in precedenza). Dicevamo: un campo sterminato delle teorie più disparate e spesso balzane, che si estende tra le fila ordinate di frasi memorabili pronunciate da personaggi destinati a essere eterni o a essere dimenticati il giorno seguente, al di là di quella frase. Frasi perfette, cinematografiche. Dignitose. Eroiche. Pop. Ironiche dell'ironia più raffinata. Sarcastiche del sarcasmo più affilato. Troppo stupide o goffe per essere vere. Definitive. Lo sappiamo tutti, in questo campo, che l'unico vero guadagno è una batteria infallibile di citazioni e aneddoti, da giocarsi nelle discussioni e negli aperitivi.

Oggi Netanyahu se n'è uscito con una frase del genere. Inesorabile e teatrale. Perfetta nel riassumere gli ultimi fastidi israeliani. Con la più bella goccia di risentimento distillato che abbia mai letto nero su bianco.

"Mr. President, you don't need to do nation building in Israel. We're already built."

Come diventare uomini

In giusto undici tracce.

Comprarsi Highwayman (unica vera superband della storia della musica, Johnny Cash, Willie Nelson, Waylon Jennings, Kris Kristofferson) alla fiera del disco di Conegliano.


Ascoltare alla nausea "The Ballad of the Leningrad Cowboy " dal mirabile film "Leningrad Cowboys go America".

Ladies and Gentlemen,

in this town there are millions of stories,

this one is mine.

I've always been a farmer,

at Collective 49,

worked the black soil of the Russia

for potatoes and some wine.

I was happy driving tractors,

for at last twenty years,

till the local commisar let my wife disappear.


I'm a Leningrad cowboy,

raising cows on the steppe.

Won't you pour me another vodka,

cause I'm drinking to forget.


He's a Leningrad cowboy,

raising cows on the steppe.

Won't you pour him another vodka,

cause he's drinking to forget.


He's a Leningrad cowboy,

raising cows on the steppe.

Won't you pour him another vodka,

cause he's drinking to forget.


Continuare l'applicazione per almeno due settimane, se necessario rafforzare la cura con dosi abbondanti di manipolatori ascolti nel sonno. Si garantisce la scomparsa dei persistenti effetti di infanzia passata chiuso in casa con libri e tv, mentre gli altri ragazzini fuori giocavano ed esploravano. Di mancanza di figure maschili di riferimento. Di decenni di vita nella demascolinizzante società contemporanea. Risultato garantito: diventa anche tu un rude uomo virile di una volta.

Questa non è spam.

Possibili effetti collaterali: comparsa di speroni, dipendenza da fibbie di cuoio.

lunedì 23 maggio 2011

martedì 10 maggio 2011

RT

(Il fatto che sia partito mi dà l’occasione di scrivere questo patetico intervento.)

Quanto non adoriamo, tutti quanti, gli endorsement? La possibilità di dire la nostra un numero infinito di volte, di prendere ancora e ancora posizione su qualunque cosa? La possibilità di far sapere agli altri qualcosa di noi, molte cose, attraverso una singola scelta? (Far sapere agli altri qualcosa di noi è probabilmente ciò che desideriamo di più, in assoluto). Ed è così facile! Ci guardiamo attorno ed ecco che troviamo almeno due o tre nuove occasioni per schierarci. Io adoro gli endorsement. Sono un bel gioco – a costo zero, e capita pure di guadagnarci, di tanto in tanto. Con uno dei miei primi endorsement (Hillary Clinton. Già quattro anni – non ci si crede) ho avuto la possibilità di conoscere una persona e un blog (poi diventati vari blog) che sono ancora oggi l’incontro più piacevole che mi sia capitato in rete. Che sia un gioco – solo un gioco – non ci piove. Perché un endorsement possa essere davvero significativo, è necessaria una di queste due condizioni: che l’endorser abbia un’autorità morale, intellettuale o umana da spendere, in questo appoggio; che abbia un seguito – un pubblico, una platea, un gruppo di conoscenze disposti ad ascoltare questa decisione e ad accoglierla. Perché possa essere efficace, poi, queste due condizioni devono verificarsi contemporaneamente, in una qualche misura. Mancando a me, nello specifico, entrambe tutto resta solo un gioco. Poi nella migliore tradizione del tifo onnipresente, gli endorsement mi vengono spontanei nelle occasioni in cui l’oggetto o la persona appoggiata partecipano ad una sfida. Appoggiare, in questi casi, è una doppia scelta e doppio è anche il piacere che se ne ricava: si sostiene qualcuno nella misura stessa in cui si osteggia l’altro implicato. Per cercare di uscire da questa brutta abitudine, per muovere un primo passo per diventare una persona perbene, per darmi finalmente a un endorsement propositivo, scelgo un’occasione speciale. Questo è un endorsement a favore dell’artista Rodolfo Toé.

Nel farlo, mi trovo ad affrontare in particolare due scrupoli, tra i tanti.

Lo scrupolo n. 1 di questa occasione.

Quali possono essere i parametri di questo giudizio? Attraverso quali linee e schemi esprimere un parere su questa musica? Volendo essere prosaici: ne posso parlare come parlerei di quella di…Mozart e Dylan? Degli esempi più conosciuti della musica alternativa italiana, chessò, Afterhours, Verdena o Brondi? Degli altri gruppi che nella stessa realtà locale cercano di farsi un seguito? Di un concorrente della Corrida? Anche se questa non vuole essere una trattazione esaustiva e nemmeno una recensione secondo i criteri canonici, il problema rimane. La chiave di tutto sta nel chiarire cosa si intenda per artista, e quando qualcuno possa essere definito tale. Che ci piaccia o no, ancora oggi la maggior parte delle discussioni, quando si parla di musica, va a incagliarsi su questo punto. Ognuno ha visioni del mondo, teorie ontologiche ed ideologie culturali da poter chiamare in causa, come armatura alle proprie rocciose convinzioni. Ma non si va molto lontano, con questo approccio. Meglio scendere su un piano più concreto, e muoversi con la semplice intenzione di trovare un criterio, un parametro che ci permetta di separare e precisare, fosse anche con un taglio un po’ rozzo. E qui entrano in ballo questioni linguistiche. La definizione più banale che si possa dare del termine artista è: una persona che, operando in una delle discipline comunemente definite artistiche, compia una serie di azioni atte a produrre un oggetto che abbia finalità individuabili nello stimolare pensieri, riflessioni o sensazioni estetiche. Abbastanza chiaro. Non è nemmeno particolarmente problematico definire quali siano le discipline artistiche: dalla fine dell’Ottocento, con l’affermarsi definitivo di fotografia e cinematografia, il loro elenco è pressoché fisso e universalmente riconosciuto. La famiglia si è allargata con l’introduzione di nuovi campi, spesso crossover di quelli più classici (fumetto, videoclip, installazioni video, ecc.), ma senza subire eccessive trasformazioni.

Non si può però liquidare il problema senza prima considerare un piccolo dettaglio. La lingua è uno strumento e ha la sua funzione nel permettere alle persone di comunicare; con l’evoluzione della lingua scritta, anche quella di trasmettere questa comunicazione del tempo. La lingua ha dei propri codici, certo. I più importanti sono la grammatica e un bagaglio lessicale ereditato. Ma questa codificazione, questa rappresentazione della lingua come un sistema di leggi e di regole, è un risultato a posteriori e non la fondazione di tutto. Un risultato a cui si è giunti per garantire una base di strumenti condivisi per dare maggiore efficacia alla comunicazione e per espandere lo spazio fisico e concettuale in cui questa si può svolgere. Ma alla flessibilità e alla vitalità della comunicazione queste regole rimangono assoggettate. Sono valide fintanto che. Non “sono valide nonostante”. È uno dei motivi per cui le intransigenze giacobine di molti su grammatica e lessico sono puerili e noiose. È il caso per esempio di un noto autore americano (non facciamo nomi).

Bisogna allora riconoscere che oggi, nella maggior parte degli spazi quotidiani di comunicazione, il concetto di artista si è evoluto. E in parte si è distanziato da quello di arte che, ispirando una maggiore sacralità, si evolve con più lentezza e maggiori riserve. Oggi la categoria di artista ha una natura duplice, perché duplice è diventata a sua volta la natura delle discipline in cui questo svolge la propria attività. Al concetto originario si è aggiunto quello di spettacolo, di intrattenimento. Ridicole quindi le pantomime che fanno alcuni sullo sdegnato rifiuto di considerare determinati personaggi come artisti. Vittime più diffuse l’adolescente lasciva americo-canadese di turno, una manciata di band vocali maschili o femminili, spesso interi generi. E lo so bene, come va in queste occasioni. Scenate del genere le facevo io, più di tutti, fino a ieri. Un buon modo per smettere è accorgersi che non si è in nulla diversi dal vecchietto che bofonchia “no l’è miga …(parola da inserire a seconda della circostanza) quea lì”. Viene meno, quindi, la possibilità di appellarsi alla “qualità” come criterio distintivo, in questa nostra situazione.

Riprendiamo. Eravamo alla ricerca di un criterio per poter definire qualcuno un artista. Visto che sta andando per le lunghe, saltiamo qualche passaggio e conveniamo che non lo si può trovare, un criterio sufficientemente condiviso. Che ognuno si costruisca, allora, il suo e cerchi di radunarci attorno un feudo di convertiti. Per quanto mi riguarda, inizio a non sentirmi in colpa, nell’usare il titolo di artista, quando la persona in questione è arrivata al traguardo (una volta oggettivissimo, ora sempre più indefinito) della produzione. Valido, ovviamente, solo per determinate discipline. Musica, letteratura, cinema. Un discriminante molto poco romantico. Ma in fondo sensato. Se la persona in questione riesce a farsi pubblicare un disco, un libro, un cortometraggio, verosimilmente è uscito dalla fase dilettantistica della sua carriera. I suoi lavori hanno conquistato una certa attenzione e, cosa più importante, entrano in quei circuiti tradizionali attraverso cui la musica, la letteratura, il cinema ancora oggi passano (i tempi cambiano, ovviamente, e questo mio criterio ha i mesi contati. Ma non c’è stato ancora un cambiamento così radicale da sconfessarlo). E hanno un loro pubblico; potrà essere meno numeroso di quanto sperato o preventivato, ma esiste. Da questo punto di vista, Rodolfo Toè non è ancora propriamente un artista. È un artista in potenza, non in atto. Però, visto che una volta stabilita la regola, ci si può subito buttare alla ricerca dell’eccezione migliore, questa carta-bonus spendiamola ora. Il ragazzo ha un sacco di attenuanti per meritarsela.

Passiamo al problema successivo (avete mangiato la foglia, vero? Questo post sarà un unico enorme passaggio di problema in problema). Visto che ci siamo esposti nel sostenere il valore vivo e corrente del termine artista, ora ci tocca fare i conti con il fatto che alla maggior parte delle persone sembra assolutamente necessario dare un contenuto, un profilo morale e umano a questa condizione. Sarà che c’è crisi, che la congiuntura attuale è complicata, che il tessuto civile del paese e del mondo va deteriorandosi. Sarà che nella cultura non si investono più fondi, e tutto è in mano al mercato, e ormai si sa soddisfare solamente i gusti più bassi. Sarà tutto questo, ma oggi all’artista si chiede un’abnegazione morale. E l’artista in pectore dal canto suo esige che questa gli sia riconosciuta. L’artista può essere tale solo in quanto artista verticale. Verticale nei suoi contenuti, di volta in volta attenti a scendere, lungo questa direzione, per raggiungere gli abissi o le radici, l’essenza delle emozioni, dell’umanità, della realtà. Oppure a salire, e trascinare i temi di cui parlano –e i lettori, o gli ascoltatori, con essi- verso la redenzione, la salvezza, il paradiso, la perfezione. Toccare il fondo della realtà o elevarla al suo meglio. In entrambi i casi, quello che è richiesto è la profondità. Verticale, anche, nel suo atteggiamento morale. I piedi ben piantati per terra, le gambe tese, la schiena dritta come un filo a piombo, la fronte alta. Per poter essere faro dei popoli; per poter tenere d’occhio il comportamento degli altri, e censirlo. Soffiano forti venti gelidi contro di lui. La corruzione, l’immoralità, l’invidia. Portano con sé badilate di fango. Ma l’artista regge, imperterrito e saldo. È un profeta, o un martire. Al suo apice, un profeta martire. La libertà potrà anche essere partecipazione, ma i suoi sacerdoti sono queste integerrime figure solitarie. Il meglio che possiamo fare è porgere loro la frusta, e ascoltarle.

Visti tutti i danni che questa tendenza ha fatto, sarebbe forse il caso di iniziare a contrapporle con più insistenza la figura dell’artista orizzontale. Orizzontale nelle sue intenzioni intellettuali: qualcuno di voi ha forse mai trovato della profondità in un racconto di Carver? Immagino di no, visto che lì non ce n’è, di profondità. Ho notato che l’incisione Melencolia I di Dürer ha un numero di fan e ammiratori assolutamente superiore a quanto immaginabile. Nelle ultime settimane si è guadagnata almeno due articoli sulla stampa internazionale. E sono certo che non sia merito della sua simbologia o perché venga presa per l’impersonificazione stessa del sentimento. È per il riconoscimento: ne guardiamo il volto, analizziamo la postura del corpo, ci concentriamo su quell’unica macchia che è lo sguardo e riconosciamo quell’ombra e quelle forze. Sappiamo cosa significano. Qui sta il punto. L’arte, nei momenti migliori impressi su pagina o su tela, riprodotti su schermi o diffusi nell’aria, non è profonda. È orizzontale. Non fornisce spiegazioni del mondo, perché non c’è nessuna spiegazione possibile per qualcosa di così grande, vario e complesso; se anche esistesse non avrebbe una vita più lunga di quella di una farfalla. Non indica la strada per la redenzione: lo sanno tutti che la cosa migliore è strappare qualche piacere in questo purgatorio. Quello che fa è assorbire, riproporre e diffondere l’umanità presente nella realtà. Creare ancora, e ancora, empatia. E questo è uno dei motivi fondamentali per cui ognuno di noi, oggi, ha letto libri, ascoltato musica, guardato film più di chi sia vissuto nelle epoche precedenti; questa è la ragione, più ancora della relativa economicità odierna dell’arte, o del progresso tecnologico. Abbiamo un bisogno disperato di provare empatia –e di poter confermare a noi stessi di essere capaci di provarla. Di sentirci raccontare, e di vederci presentare le prove, che l’umanità esiste ancora. Se lo straniamento della vita moderna esiste, e non è solo una favola, questo bisogno urgente che ci coglie è il suo risultato più evidente. Un altro bisogno a cui quest’arte orizzontale risponde va oltre la testimonianza della sopravvivenza dell’umanità, e della possibilità di provare empatia per persone simili a noi. Messi di fronte a questa umanità eterogenea, abbiamo bisogno di venire a capo delle diversità esistenti. Di capire chi è diverso da noi, negli atteggiamenti, nelle credenze, nelle aspirazioni. In pensieri, parole, opere ed omissioni. Nella vita reale questo ci riesce solo a tratti, con discontinuità, con un numero limitato di persone. L’arte aiuta a coprire questi buchi – in essa troviamo la stessa varietà presente nel mondo, ma tenuta ferma e svelata. Continuando con il parallelo, questa orizzontalità è anche morale e umana, oltre che intellettuale. Ripensate per un attimo ai vostri artisti preferiti. Agli scrittori che avete amato di più. Ai musicisti che riescono a toccarvi certe corde. Che bella fiera, ne viene fuori. Alcolizzati, a metà o per intero. Fedifraghi impenitenti. Esperienze di droga non mancano di certo. Gente che si è barcamenata e ha tirato avanti con mezzucci vari. Certo, a meno che il vostro scrittore preferito non sia Terzani, ma voglio sperare non sia questo il caso. Anche chi poteva vantare virtù più salde si è ben guardato dal farsi censore e moralizzatore. Consci di quanto la verità, la giustizia, il bene non si possano trovare menando l’accetta per aria; di quanto la fallibilità, l’esposizione a mille e più contaminazioni e traversie, la tendenza a farsi catturare dalle passioni più piccole e degradanti faccia parte della natura umana, della natura di ogni uomo, hanno preferito lasciare ad altri il compito di censurare, alzarsi su un pulpito in pubblica piazza e sbraitare e inveire. Di Robespierre e Savonarola pronti a cogliere questa missione ce n’erano fin troppi, in giro. Hanno evitato, ogni volta che fosse loro possibile, di farsi tirare per la giacchetta, e doversi alzare (ben saldi, verticali, schiena dritta e fronte alta) e indignarsi. Capaci di capire le situazioni e le attenuanti, hanno perdonato – e l’hanno fatto senza tutto il cerimoniale con cui lo fanno i cattolici. Con i grandi ideali ci sono andati piano, li hanno guardati con diffidenza, con occhiate oblique, c’hanno giocato un po’, trovandoli patetici e posticci come una boccia di neve. Una boccia di neve del Cairo, snow in the Sahara. Non hanno mai messo su qualche barricata, per difendere una libertà, o pensato di buttare giù tutto, per fare strada a un ipotetico nuovo. La libertà che avevano in mente non richiedeva gesti così clamorosi, era al massimo la libertà per tutti di sognare e far l’amore (cit.). Con questo loro approccio sono sopravvissuti meglio. Potremmo citare quel pezzo che c’è in ogni antologia delle medie, Deledda, credo: nella tempesta, meglio la flessibilità della canna alla solidità della quercia.

Simili figure di artista non sono state certo rare. Figure altissime e significative. Ma, nel suo piccolo, nella scena locale in cui cerca di affermarsi Rodolfo Toè è un validissimo esempio di questo prototipo di artista, che al momento non sembra godere di buona salute. Non c’è saggezza nelle sue canzoni, tranne forse in “Per una casa verde”. E anche lì. È una saggezza davvero poco ambiziosa. Indirizzata a poche persone, a chi è stato a sua volta testimone delle condizioni che a questa rivelazione hanno fatto da premessa. Passeggera e fugace, destinata a tornare buona giusto per qualche momento. E inevitabilmente rivolta al passato e di poca utilità per il futuro. Eppure è solo questo che è possibile, e niente di più. Non si può ambire ad una saggezza superiore, perché una saggezza superiore non esiste. Per il resto, nelle sue canzoni non potrete trovare altro che qualche atmosfera (andiamo tutti così pazzi per le atmosfere. Se potessimo, non faremmo altro tutto il giorno che passare da un’atmosfera all’altra.), delle suggestioni. Qualche sentimento, qualche sensazione. Un certo numero di esperienze, una manciata di personaggi. Gente con cui vi troverete subito in sintonia perché non è in fondo diversa da voi. Gente che vi suonerà straniera, ma verrete in qualche modo presi per mano e aiutati a capirla. Un paio di occasioni per farsi una risata, o sfoggiare un sorriso. In fondo è questa, l’orizzontalità di cui parlavo. E niente soloni, niente omelie. I grandi valori assenti, barattati per un po’ di tranquillità. Nei suoi momenti migliori, Rodolfo Toè è un cialtrone.

Lo scrupolo n.2 di questa occasione.

Dopo aver cercato di spiegare quali siano i parametri di questo giudizio, un’altra questione spinosa. Può avere un qualche valore un giudizio mio? Immagino che più d’uno sarà portato a dubitare di quanto possano essere affidabili le mie parole. Alla fin fine, sono una parte in causa. L’artista è un caro amico –figurarsi se posso analizzarne i lavori con un sufficiente grado di obiettività. Potremmo metterci a discutere di quali siano gli elementi fondanti dell’oggettività. Potremmo spingerci anche oltre, indagarne la natura stessa, mettere in dubbio perfino che possa esistere qualcosa del genere. Risparmiamoci la fatica. Facciamo che, se volete concedermi tanto credito, vi assicuro che non c’è nemmeno una parola in malafede, in questo intervento. E neppure una eccessivamente parziale. Questo perché mi è sempre riuscito di essere, rispetto a Rodolfo e alla sua musica, contemporaneamente, uno dei suoi più grandi fan e uno dei suoi più duri critici (se non considerate i critici con la bava alla bocca). Bisognerebbe mettersi d’accordo sul senso di quel “grande” (che razza di post, eh? Mai che si possa prendere una parola per buona, senza doverne conquistare il senso a forza di puntualizzazioni e chiarimenti). Di sicuro non importante (va da sé) e nemmeno utile. Immagino che l’interessato negherebbe, se interrogato a proposito, ma sarebbe una semplice cortesia. Non sono un solido abruzzese, capace di mettere in piedi una sala d’incisione casalinga, reinventarsi tecnico del suono, saltare a piè pari, quando necessario, mezza Europa per dare il proprio contributo. Non sono un personaggio disgraziatamente incline a farsi fregare dalle filosofie spicce sul mangiare e sul coltivare lentamente, ma rapido come una scheggia quando si tratta di inventare una trovata o un arrangiamento. Non sono qualcuno capace di farsi perdonare angherie e violenze giusto per il rotto della cuffia, mettendo una voce così che tocca determinate corde, in quel modo lì, che fa risuonare il testo con quella forza. Non sono uno di quegli spettatori tanto assidui da meritarsi una medaglia per ogni presenza, come fossero scout, e che possono consolarsi con il titolo di spalla buona per ogni occasione e di mascotte ufficiale. Con me niente adorabili chiome rosse tra le prime file giù dal palco. E vi posso assicurare che le mie gambe non farebbero una bella figura, in calze scure. La mia limitata rete di conoscenze sociali non prevede nemmeno qualcuno che possa fare le mie veci, in questo. Lo avrete capito, l’apporto che posso dare, dopo tutti questi depennamenti, non riuscirebbe mai e poi mai ad essere mai davvero utile. Le mie presenze ai concerti sono tutto sommato rare. Certo, la scusante del trasporto. Evitarla non è semplice: poche cose, al mondo, sono mortificanti come andare a un concerto quando è l’artista stesso a dovervi passare a prendere. Delle volte si fa spallucce, perché perdere l’occasione è un peccato ancora più grande, ma un minimo di decenza va conservata. Ho contribuito a preparare qualche scaletta ma sfatiamo un mito: le scalette non sono davvero qualcosa di così importante. Gli artisti perdono spesso il senso della misura, su questo, a volte per scaramanzia, credo. Ho avuto un ruolo nella modifica di un paio di versi, in modo diretto o indiretto. In un caso questo ha portato alla sostituzione di una frase davvero troppo banale con una più sensata, capace, all’interno della canzone, di guadagnarsi uno spessore particolare. Ma niente di più.

Svolgimento.

Dice che “Trieste” è, in un certo senso, la canzone che ha avuto più successo. Che si è conquistata un pubblico e un apprezzamento più esteso, al di fuori del solito giro. Non mi sorprende. “Trieste”, all’interno della sua musica, fa parte della categoria “canzone-empatia”, così come “Abitudini” e “Figuranti”, giusto per fare un paio di esempi. Empatia, in questo caso, intesa non nel senso largamente positivo richiamato prima; un tipo di empatia meno vibrante, più semplice e di maniera (a patto di non dare a questa connotazione un tono eccessivamente negativo) e per questo capace di arrivare forte e chiaro a un numero maggiore di persone, anche quelle che non sarebbero disposte a investire una maggiore attenzione e partecipazione per cogliere un tipo di empatia più complesso.

Intermezzo n.1

Un particolare davvero divertente della produzione artistica di Rodolfo è la possibilità di raccogliere le canzoni in una serie di categorie con denominazioni buffe. Questo è vero, in piccola parte, per quasi tutti gli artisti, ma in questo caso riesce più facile. Le canzoni-empatia, già detto. Poi ci sono le canzoni-artistiche, in cui il valore letterario del testo acquista una centralità soverchiante, ed è forse il vero obiettivo dell’intera canzone. “Hansel”, “Ottobre”, “L’Orchesta del Titanic”. Le canzoni-goliardata, utili a rompere il ghiaccio o alleggerire delle tensioni nei concerti, che hanno gioco facile a far divertire la maggior parte degli spettatori, ma che vanno al di là di questa dimensione, hanno un senso e una serietà, sotto la patina di ironia, che se ne stanno tranquille, e si svelano, qualche momento dopo, a cui voglia coglierle. “Il Novanta per Cento”, la “Bourbonnaise”, “Precaria”, “La libertà. Senza tante menate”. Le canzoni d’amore atipiche. Le canzoni a doppio strato che riescono a parlare ad ogni ascoltatore ma nascondono, alla luce del loro legame con esperienze personali, un senso più intimo e profondo percepibile solo a una piccola cerchia di persone. Le canzoni-tenui. Garbate, intime. “Ci sono persone”, “Canzone misogina n.2”, “Orfei”. Certo, rimangono le canzoni difficili da inquadrare (“Silvia”) e quelle che appartengono a più di una categoria.

Dicevamo, del successo di “Trieste”. Sarebbe sciocco lamentarsi di quanto sia ingiusto che questa sorte sia capitata a “Trieste” e non a canzoni migliori.

Ah-ehm, Intermezzo n. 2 (scusate l’interruzione).

Le mie tre canzoni preferite, in ordine, di Rodolfo Toè, dovesse interessarvi:

1) “Hansel. La maturità”

2) “Ottobre”

3) “Silvia”

Una menzione particolare per “Avevo” e “Il Baluardo”, che non sono riuscite ad entrare in classifica.

Sarebbe sciocco perché lo sanno tutti, che va così. Le canzoni più conosciute non sono quasi mai le migliori, di un artista. Sarebbe sciocco, perché “Trieste” è comunque un’ottima canzone.

Daje, de novo. Intermezzo n.3

Le tre canzoni che apprezzo di meno, nel suo repertorio:

1) “I Preti”

2) “Barbera”

3) “I Papaveri”.

Dicevamo, è un’ottima canzone. Musicalmente decisamente valida, con un piacevole leit motiv che ti accompagna lungo tutta la canzone, attraverso le diverse emozioni che traspaiono nei diversi momenti del cantato. Una linea di continuità e di coerenza. La linea del sentimento, se vogliamo fare gli enfatici, che si conserva e si difende dalle condizioni del momento, dalle diverse emotività quotidiane. Il filo conduttore che ha l’accortezza di sistemarsi quando necessario sullo sfondo e lasciare lo spazio ai suoni elettrici e distorti. Un arrangiamento decisamente efficace, come d’abitudine, nel mettere in risalto le qualità musicali del pezzo. Il risultato è l’ormai classica capacità di suonare familiare e rassicurante, alla luce delle molte influenze di cui è debitore, senza però rimandare a un’unica assonanza precisa, evitando così la critica di un difetto di originalità (in questa canzone, nello specifico, c’è qualcosa degli Offlaga Disco Pax). Forse, l’unica pecca dal punto di vista musicale è l’assenza di un “momento concentrato di coinvolgimento estetico”, l’elemento più caratteristico della musica di Rodolfo, più dei validi arrangiamenti o delle melodie piacevoli. Una sua qualità è quella di sfornare sottofondi musicali in profonda sintonia con le atmosfere ricreate dal testo. Chiunque abbia un discreto bagaglio di conoscenza musicale sa che questo, purtroppo, non è così diffuso come sarebbe lecito aspettarsi. E, visto che è normale pensare che una capacità del genere vada collegata a un certo livello di esperienza “artigianale” e di maturità esistenziale, va sicuramente riconosciuto il merito, all’artista, di saperla manifestare già in una fase così precoce della sua carriera. Ma in cosa consiste, di preciso, il tocco di cui parlavo prima? In più di una sua canzone sono presenti dei singoli momenti, brevi (dieci, quindici, venti secondi), completamente coinvolgenti, capaci di donare un appagamento estetico, di catturare totalmente l’attenzione dell’ascoltatore e immergerlo con forza nel pathos del pezzo. Se non avevi ancora capito di cosa parlasse davvero la canzone, ora hai avuto un’illuminazione. Se già ne avevi capito il senso, ora hai superato quel livello, ora lo vivi. È come toccare il nocciolo della canzone, il suo cuore pulsante, e quasi il testo e il resto della musica non aggiungono altro.

Intermezzo n.4

Per quanto mi riguarda, l’esempio più lampante di questa “esperienza estetica” si trova in “Silvia” (e spiace non citare quello di “Ottobre”). Tra l’1:06 e l’1:16. Undici secondi, annunciati da tre armonici. La melodia è presente anche in altri momenti della canzone, ma in questa parte sfrutta appieno le sue potenzialità. È un ballo, come confermato dal verso subito successivo. Un ballo classico, ma con le sonorità dolciastre del folk. Le corde, garbate, vi accompagnano nei giri che dovete essere in grado di far fare alla vostra partner. Una concessione davvero generosa, a voi che non siete mai stati particolarmente dotati, nel far ballare una donna. Avete tra le mani Silvia, afferrata ora per le dita, ora per un fianco, ora per una porzione di schiena, e la guardate con gli occhi del narratore. È così bella, e desiderabile, Silvia. Farla volteggiare per la stanza è un vero piacere, e lei lo sa. Ma lo sa nel modo sbagliato. Per lei è il piacere standard che prova l’uomo a far ballare una donna. Vi guarda in quel punto tra mento e spalla e vi concede un sorriso accennato non troppo intelligente. Perché non è un sorriso per voi, in quel momento, nella sala in cui vi trovate, accompagnati da quella canzone. Momento, sala, canzone, uomo sono solo dettagli da inserire negli spazi standard di un modulo prestampato. Mettervi una firma rende creditori di una prestazione. Giravolte per cinque minuti accompagnate da un sorriso che abbia almeno l’angolazione minima richiesta x e la durata y. Prima che la band canti tre ultime canzoni, lei vi avrà rinnegato con tre nuovi cavalieri, dicendosi di non conoscervi. Durante il ballo i vostri sguardi non riescono mai ad incontrarsi. Il suo, assente, starà attento a posarsi su punti poco impegnativi; il vostro si caricherà di risentimento, perché il senso che volevate imprimere in queste tre mosse stupide a cui vi siete costretti non è stato riconosciuto.

Tutto questo non sta (tanto) nelle parole del testo. È in quegli undici secondi.

Riprendiamo di nuovo le fila. Dicevamo? “Trieste” è una bella canzone (ma guarda che caso, quante volte l’ho già ripetuto?). Certo, manca l’impronta più caratteristica, il momento migliore, della musica dell’artista. Il testo conquista nella misura in cui può essere preso nella sua accezione più banale. Perché quindi non è un male il successo di questa canzone? Perché ci sono tre versi, nel testo, che sono un esempio chiarissimo del talento dell’artista, e la pubblicità migliore al dono più importante che possa farvi: l’empatia orizzontale a cui accennavamo prima. E rendono chiaro un punto: nonostante la sua formazione, le sue prime esperienze e, credo, le sue aspirazioni, Rodolfo Toè non è un poeta, nelle sue canzoni. È un narratore, ed è in questo campo che raggiunge livelli davvero significativi.

“Se non altro ci promettiamo che troveremo un modo”. Chiunque abbia mai vissuto un rapporto a distanza sa che questa, immancabilmente, è la frase con cui ci si accomiata. Trovare un modo è un’espressione dalla genericità opprimente. Rimane aperta all’imprevedibilità del vivere, flessibile e duttile agli spazi che le diverse situazioni le permettono di occupare. Rimane talmente vaga da lasciare intendere che quel modo non sia poi più afferrabile di una cometa, più verosimile di una chimera: lascia aperta l’eventualità che quel modo sia la consolante bandiera dell’impossibilità, e della mancanza di colpa, da poter sventolare in faccia alla sconfitta. “Troveremo un modo” è il mantra che si ripetono gli amanti, concedendosi in questo rosario un tono sempre diverso. Lo si può recitare fitto fitto, ripetuto molte volte di fila, velocemente, senza soffermarsi su nessuna parola. È un esorcismo contro la paura. Lo si può pronunciare nel modo opposto, una volta sola, inesorabile, ogni parola ben messa in risalto, le prime lettere con una certa forza ed il resto della parola che scorre in una dolcezza crescente. Nel farlo, la cosa migliore è afferrare una ciocca di capelli della ragazza, lisciarsela tra le dita, e rimetterla al suo posto, ordinata dietro il lembo dell’orecchio. È la frase ad effetto dell’eroe, tutto andrà a posto, tutto sarà riportato nel suo giusto ordine, fidati. Lo si può ripetere a turno, uno sulla faccia dell’altro, sputato nell’enorme sorriso con cui veniamo ricambiati. Qui, di nuovo veloci e con una risata un filo troppo squillante, un filo troppo vacua. Non ci sono paure e non c’è nemmeno bisogno di ordine o di eroismi. I timori riposano sotto i tappeti. Nei casi più complicati, è un’arma che può imbracciare chi, dei due, si trova dalla parte dei buoni. A voler essere sgradevoli, lo si trova sempre, il vero colpevole. Chi se ne va più lontano, chi se ne va per più tempo, chi prende una strada che rende meno compatibili i giorni a venire. Questa frase viene brandita con decisione, sbottando. Discorso chiuso, sarà quel che sarà, cerchiamo di appenderci a questo modo. Va da sé che trovarlo spetta principalmente all’altro. È lui quello nel torto.

“E se non altro potremo esibire la felicità di mancarci ogni giorno”. Anche in questo caso, probabilmente sapete di che si tratta. Parlavo di esorcismo, prima. Questo, quando è successo, quando si è separati, è l’esorcismo più grande. Ripetersi sempre quanto ci si è mancati, nel tempo passato dall’ultima volta che ci si è sentiti. Confermarsi a vicenda, lisciando ognuno il senso di mancanza dell’altro, che ha ancora un senso, che ce la si può fare. La mossa migliore è buttare lì, ma senza enfasi, infilandoli qui e lì nel discorso, dei piccoli esempi di situazioni particolari. Non troppo romantici (subentrerebbero il rimpianto e la malinconia). Qualcosa dotato di un suo piccolo fascino sghembo. Qualcosa di indie. E il giorno dopo, mentre siete in giro per le vostre città diverse, raccoglietene di nuovo altre, di queste situazioni, come foglie da infilare tra i libri, e far seccare finché arriva il momento buono. Finché è il momento di ripetere questa recita a due. Celebrare la felicità del mancarsi, fingere di trovare il piacere nel dolore. Come continuare a schiacciare un ematoma con la punta delle dita, mentre questo nei giorni assume sfumature diverse.

“…per quando saremo normali, per quando saremo due estranei”. (censuriamo la parte sugli aborti spontanei. Anch’io, che ho una sfilza di indizi sull’assoluta buona fede, non riesco a non considerarlo un passaggio ruffiano e di maniera.) Riassunto, in due righe, il problema con cui molti devono fare i conti, nei loro rapporti personali. L’unico modo, per far sì che una relazione continui, è rimanere estranei. È questa, la normalità, e se molti si ritrovano da soli, possono maledire la propria incapacità di accettare questa estraneità. Il loro desiderare ed aspirare ad altro, di più, per poi ritrovarsi con niente. Sono capaci di uscirsene con un “Quella coppia, diavolo, non so come facciano. Sembra che non conoscano niente uno dell’altro! E stanno insieme da quarant’anni”. Detto come se fosse un ossimoro. Non riescono ad arrendersi al fatto che la strategia migliore sia quella di collezionare un certo numero di estraneità diverse, conservarle tali, senza mai superare il segno, incastonarle in un quadro armonioso. Una rete di persone che vivono insieme e non sanno nulla l’una dell’altra. È ancora qualcosa che non riescono ad accettare. Nel frattempo, si ritrovano soli.

La forza di questi tre versi è amplificata dal modo in cui vengono urlati. L’artista ha parlato del senso di liberazione provata, durante la loro registrazione. Sarà, ma l’impatto che rendono è (fortunatamente) tutt’altro. L’urlo più trattenuto, impostato, che si possa immaginare. Non l’urlo liberatorio, l’urlo dei nervi che cedono. Il massimo dell’urlo che una persona normale possa quotidianamente concedersi, circondata com’è da altre persone, obbligata com’è a dedicarsi alle attività necessarie.

Una curiosità che vale la pena notare: la strofa si fonda tutta sul “e se non altro”. Pensandoci un attimo, è l’esatto opposto del “ma anche”, dell’idea che la realtà sia bella e varia, ma che possa essere tenuta insieme, che le grandi tradizioni abbiano ancora da dare qualcosa all’uomo e che possano perfino convivere, che sia tutto un bel banchetto imbastito e ci si possa servire a piacere. Prendere le cose migliori e metterle insieme. Nel “se non altro” le tinte sono l’opposto. Quel poco di buono che si può ricavare è frammentato, ce lo si deve godere per quello che è, quando capita, finché dura. Non lo si ottiene allungando la mano e prendendolo semplicemente, lo si deve conquistare, strappandolo a quanto di doloroso vi si ritrova attaccato. Lo si conquista, soprattutto, a forza delle cecità che ci imponiamo.

Il rammarico da confessare.

Tra tutte le critiche che ho rivolto, in vari momenti, alla musica di questo artista, una è stata particolarmente ingiusta. Fatta in buona fede, si intende, ma eccessiva e in un certo senso sbagliata. Non in quello che è il suo senso oggettivo. Da questo punto di vista rimane fondata: prendete 8 o 10 o 12 canzoni. Mettetele insieme. Per quanto la vostra scelta sia ponderata e attenta, il risultato che ne ricaverete non sarà mai qualcosa di omogeneo. Questo presunto album che vi siete costruiti è una raccolta di belle canzoni, che vi piace ascoltare, ma non ha una coerenza interna sufficiente a qualificarlo come un vero e proprio album, come un’opera incarnante idee e stili coerenti. Ma, nel formulare questa critica, nella mia testa, la mancanza di organicità era da intendersi anche come mancanza di una vera poetica. Come se quelle canzoni potessero benissimo appartenere ad una pluralità di artisti e la comune paternità non fosse automaticamente riconoscibile. In questo ho completamente sbagliato e ho impiegato molto tempo, ad accorgermene. Una poetica toeiana esiste, è forte, coerente, ispirata e la si può notare con maggiore evidenza nella canzone “Novembre, gli ultimi giorni prima del diluvio”. So cosa pensate: che bel giochino scemo e divertente, voler cercare i tratti più significativi della produzione di un artista in una sua canzone tutto sommato secondaria. Ma in questa canzone gli ingredienti della sua musica sono messi più in evidenza, e palesi all’orecchio di chi si dedichi all’ascolto con una certa attenzione. Rodolfo Toè inserisce, nei propri testi, parole-totem, pesanti ed ingombranti: Dio, morte, dolore, noia, maturità, ovviamente amore. Ma le sgonfia e le desacralizza: Dio è un povero cristo (gioco di parole involontario), di cui l’uomo può benissimo fare a meno, anche perché, quando si presenta, combina disastri come se si trattasse di un gioco per sfuggire alla noia. Il dolore non è poi tutta questa gran cosa: è una condizione a cui ci si può abituare senza troppi sforzi. L’amore è un incastro di trucchetti e scaramucce, molto raramente qualcosa di più di una collezione di cazzate. Questo doppio movimento (elevare la propria musica tirando in ballo grandi temi; affossare i grandi temi inserendoli nella propria musica), che si riduce nella pratica ad uno sgonfiamento, è gestito attraverso una tattica linguistica che ci si aspetterebbe produrre un risultato contrario: la citazione e il riferimento a mitologie, grandi narrazioni, la Bibbia. La canzone contiene inoltre il più importante manifesto programmatico dell’autore (molto più di quanto non faccia “La libertà. Senza tante menate”): “oggi smetteremo di credere, di rifletterci nelle persone”. Non è una musica per la gente, questa. E d’altronde chi l’hai mai vista, questa “gente”? Chi c’ha mai avuto a che fare? Chi vorrebbe averci a che fare? Senza voler essere enfatici, credo di poter dire che Rodolfo e io siamo sempre stati capaci di riconoscere il pensiero dell’altro. Di concedergli sempre il pregio, o almeno la scusante, della buonafede. Di accettare l’incombenza di prendersi un momento per sondare le ragioni di determinate prese di posizione dell’altro, di indagare tutte le premesse che ne facevano da genesi. In tutto questo però finiamo, molto spesso, per trovarci su convinzioni e idee molto lontane, a volte difficilmente compatibili. Se c’è qualcosa che ci ha sempre accomunato, questa è l’allergia, a volte posata, a volte viscerale, per l’umanità, la società, l’universalità, soprattutto quando sono tirate in ballo come categorie esplicative. Cercando di ricalcare, un po’ goffi, i passi di tanti venerati maestri, ci siamo riproposti di riconoscere la dimensione privata della Storia e dei suoi fenomeni. Di guardare alla persona, di fuggire dai plurali. Sempre convinti che gli elementi del reale si qualificassero e si potessero capire sulla base di ciò che li rendeva unici, che li differenziava da tutto quello che li circondava. Immagino che alcuni tra i suoi ultimi post abbiano spiazzato parecchi, e li abbiano anche fatti indignare, magari. Sono convinto che la ragione sia questa “filosofia di fondo” dell’autore; le persone che si sono scandalizzate, con ogni probabilità, hanno preso per politico ciò che invece era, a ragion veduta, esistenziale.

“Novembre” è significativa anche nel chiarire una volta per tutte le influenze musicali dell’artista. E qui bisogna riconoscere che Rodolfo Toè ha compiuto la truffa del secolo, vi ha fregato tutti. Vi siete persi a puntualizzare come “Il Novanta per Cento” sia una roba tirata fuori da Guccini, niente di più che una macchietta de “L’Avvelenata”. Magari avete osservato (giustamente –in fondo questa è un’idea mia, e mi permetto di mettervela in bocca) come “Avevo” sia il lato oscuro di “Buonanotte, fiorellino”: la stessa nenia cullante (nonostante le distorsioni) da cui sia stata tolta ogni traccia di dolce e che abbia da offrirci l’agro rimasto. Vi siete ripetuti come il modo in cui i primi due-tre versi di “Hansel” sono cantati ricorda proprio De Andrè, e del resto anche le atmosfere della canzone hanno qualcosa di suo. Beh, fregati. Leggere le canzoni di Rodolfo attraverso la lente del cantautorato italiano è stupido oltre ogni limite. E a ricordarvelo è la chitarra di “Novembre”, con tutte le suggestioni, musicali e letterarie, che si porta dietro. Una chitarra essenzialmente rurale. Ma che non ha nulla a che vedere con la ruralità nella musica italiana, che è sempre, immancabilmente, una ruralità ideologica, macchiettistica, la celebrazione della “vittoria nonostante tutto, nonostante ogni apparenza”, della vittoria morale. La narrativa toeiana è quella dei “perdenti nonostante tutto”. E se scomodare Johnny Cash sarebbe ridicolo (non tanto per distanze qualitative, quanto per impossibilità oggettive), è nel solco da lui creato che bisogna cercare i numi tutelari della musica che state ascoltando, le pietre di paragone con cui poter inquadrare e capire. La musica di Toè è vicina ed è parente di quella di Warren Zevon, di Ry Cooder, dei gruppi alt-country più recenti, primi tra tutti “The Mountain Goats”.

Infine, “Novembre” è importante per una parola, la vera chiave di volta della poetica dell’autore. Dove per alcuni c’era il “fanciullino”, o “l’ideale dell’ostrica”, per Rodolfo Toè ci sono gli anfibi. I personaggi si ritrovano a vivere in un limbo incastrato tra dell’acqua stagnante, uno strato abbondante di fango, un incipit di terra. Sono sconfitti, guardati con un po’ disgusto, rimasti ad uno stadio larvale dell’evoluzione. Nonostante siano stati loro, spesso, a permettere l’inizio di tutto. Riescono a sopravvivere solo accettando la propria condizione, imparando che i cambiamenti che possono arrivare sfoceranno inevitabilmente nel peggio, anticipandoli con mutazioni che sappiano metterli al riparo. Mettono su nuovi sistemi respiratori che li tengano in piedi nel nuovo ambiente. Si tengono ben strette addosso le branchie, guardate da tutti come un anacronismo ridicolo, sicuri che torneranno loro utili, in futuro. Nel futuro in cui potranno gustarsi l’unica risata per loro possibile, quella accompagnata da qualche goffa sguazzata, mentre i grandi annegano.

Quindi, per finire: sapete forse indicarmi qualcuno, nella musica indipendente italiana, che possa vantare, fin dall’inizio della sua carriera, tante frecce al suo arco? Immagino di no, ed allora: RT, ritwittate, andate e ditelo alle montagne.

P.s.: se non dovesse avervi convinto tutto quello elencato sopra, vi lascio con un ultimo aneddoto-simpatia. Al momento Rodolfo Toè è la più grande fabbrica vivente e operativa, al mondo, di epitaffi. Se, per me, non avessi già definitivamente scelto (questa è una comunicazione ufficiale. Chi di dovere se lo segni, e provveda, quando sarà il caso.) il borioso “Avrebbe potuto, se avesse voluto. Ma non gli è sembrato il caso di volere” allora prenderei seriamente in considerazione:

  • il poetico “Non serve rimanere, così a mezz’asta, tramontare come alle sere”;
  • il sarcastico (e leggermente modificato) “Noterete la mia assenza?”;
  • il monito “Non riesco ad immaginarmi un futuro migliore”;
  • l’assolutorio (e leggermente modificato) “Si è portato dentro il suo verme da vero signore”;
  • l’atto di cortesia per i vermi (leggermente modificato) “Nel mio petto voglio il timo”;
  • l’altezzoso (o sincero?) “Non c’è nulla che io ami, non c’è niente che mi piaccia.”;
  • il divertente “Mi han detto di stare qui ed aspettare”;
  • il riassuntivo “Una vita inquieta e silenziosa”;
  • l’auto-assolutorio “Non imploro perdono per le impronte lasciate”;
  • il riconoscente “Grazie per questa mia, ed è anche troppa, importanza”;
  • il franco “E più della memoria ora è paura. E la tristezza come per qualcosa che pian piano si perde”.

giovedì 5 maggio 2011

Con me hai chiuso *schiaffo*

Con Internazionale ho un rapporto di amore e odio. Va detto che non è in fondo nemmeno colpa di Internazionale. C'entrano più che altro molti dei lettori di Internazionale che ho conosciuto. La maggior parte. Gente convinta che Internazionale sia il bene, il salvatore della stampa italiana. Che chi legge Internazionale (loro, ndr) sia informato sul mondo.

Internazionale è un buon giornale, tutto sommato. Certo, totalmente inadeguato a svolgere il compito di riproporre il meglio della stampa internazionale della settimana, di dare una visione approfondita e il più possibile completa di quanto sia successo nel mondo in quel periodo. Non so quanto si possa criticare il giornale per questo: ho sempre avuto l'impressione che questi compiti glieli abbiano attribuiti i suoi lettori più che essere in sé la missione della redazione.
C'è il problema della parzialità. Senza entrare in dispute filosofiche sul senso e sulla possibilità dell'oggettività, gli articoli sono selezionati sulla base di determinate idee e visioni del mondo. Non è un male, anche perché in genere la redazione riesce a far sì che la parzialità non si trasformi in faziosità. Trovo però sconvolgente come molti non riescano a coglierla, questa posizione. E parte della santificazione di cui il giornale gode passa anche per questa incapacità.
Internazionale è per buona parte inutile. La maggior parte del suo bacino di utenza ha le capacità, i modi e gli stimoli per raggiungere il meglio della stampa internazionale da sé, e di fruirne in inglese, o in altre lingue. Basta avere un account di Twitter e l'accortezza di seguire i contatti giusti (quelli ufficiali di determinati organi di stampa, quelli personali di alcuni giornalisti, i blogger più influenti) per usufruire di un simile servizio gratuitamente, in maniera più completa ed immediata. Internazionale conserva una sua funzione sulla base di: pigrizia, desiderio di colmare i vuoti lasciati dalla mancata conoscenza di determinate lingue, paura di essersi lasciati sfuggire qualcosa. Non molto, in fondo.
Per cui, questa è una fase in cui l'odio ha superato l'amore. Ho smesso di acquistarlo da un po', visto che ultimamente lo facevo giusto per le recensioni di libri e album. Oggi credo che questa scelta sia diventata definitiva. L'account Twitter di Internazionale ha linkato un articolo che si lancia in una difesa dei piccioni. I piccioni! Il nemico!

domenica 1 maggio 2011

Freedom of eating

E' un po' patetico citarlo per due giorni di fila, ma. Il primo maggio. Questo primo maggio. Con tutte le cose implicate: il dibattito sul senso e sui modi del manifestare pubblico; i contenuti, oltre che le forme, della giustizia sociale; l'uguaglianza come e perché; le parole-chiave che prima erano grandi processi e grandi narrative, e poi si sono trasformate in bandiere, fino a ritrovarsi slogan stantii.

Questo giorno Perle ai Porci -dall'altra parte del mondo, veramente dall'altra parte del mondo, non solo geograficamente- se ne esce con questa vignetta. E io non ho più parole, per celebrarlo.