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giovedì 5 maggio 2011

Con me hai chiuso *schiaffo*

Con Internazionale ho un rapporto di amore e odio. Va detto che non è in fondo nemmeno colpa di Internazionale. C'entrano più che altro molti dei lettori di Internazionale che ho conosciuto. La maggior parte. Gente convinta che Internazionale sia il bene, il salvatore della stampa italiana. Che chi legge Internazionale (loro, ndr) sia informato sul mondo.

Internazionale è un buon giornale, tutto sommato. Certo, totalmente inadeguato a svolgere il compito di riproporre il meglio della stampa internazionale della settimana, di dare una visione approfondita e il più possibile completa di quanto sia successo nel mondo in quel periodo. Non so quanto si possa criticare il giornale per questo: ho sempre avuto l'impressione che questi compiti glieli abbiano attribuiti i suoi lettori più che essere in sé la missione della redazione.
C'è il problema della parzialità. Senza entrare in dispute filosofiche sul senso e sulla possibilità dell'oggettività, gli articoli sono selezionati sulla base di determinate idee e visioni del mondo. Non è un male, anche perché in genere la redazione riesce a far sì che la parzialità non si trasformi in faziosità. Trovo però sconvolgente come molti non riescano a coglierla, questa posizione. E parte della santificazione di cui il giornale gode passa anche per questa incapacità.
Internazionale è per buona parte inutile. La maggior parte del suo bacino di utenza ha le capacità, i modi e gli stimoli per raggiungere il meglio della stampa internazionale da sé, e di fruirne in inglese, o in altre lingue. Basta avere un account di Twitter e l'accortezza di seguire i contatti giusti (quelli ufficiali di determinati organi di stampa, quelli personali di alcuni giornalisti, i blogger più influenti) per usufruire di un simile servizio gratuitamente, in maniera più completa ed immediata. Internazionale conserva una sua funzione sulla base di: pigrizia, desiderio di colmare i vuoti lasciati dalla mancata conoscenza di determinate lingue, paura di essersi lasciati sfuggire qualcosa. Non molto, in fondo.
Per cui, questa è una fase in cui l'odio ha superato l'amore. Ho smesso di acquistarlo da un po', visto che ultimamente lo facevo giusto per le recensioni di libri e album. Oggi credo che questa scelta sia diventata definitiva. L'account Twitter di Internazionale ha linkato un articolo che si lancia in una difesa dei piccioni. I piccioni! Il nemico!

venerdì 15 aprile 2011

Si unisce allo sbeffeggiamento dello slogan dell'ultima fronda di ribellismo civico Adriano Sofri, nella rubrica Piccola Posta oggi sul Foglio (manca a dire il vero la parte finale, quell'"adesso" urlato ed invocato, che è il vero colpo di genio a rendere ridicolo lo slogan).

"Se non ora, quanto?"

giovedì 14 aprile 2011

Volevo scrivere due righe su quanto stia diventando fastidiosa e pedante l'insistenza di Saviano sulla "macchina del fango" e su quanto sia puerile farne una parola-chiave della propria retorica.

Pare sia stato preceduto.

martedì 29 marzo 2011

Il sonno della ragione non genera solo Borghezi.

Immagino che chi abbia seguito, anche saltuariamente, questo blog o il mio account su Twitter si sia accorto che su Vendola ho il dente avvelenato. Gli ultimi post dovrebbero aver chiarito che sono un grande fan della rubrica di Cerasa sul Foglio "Nichi ma che stai a di'?". Una rubrica di rara efficacia (non l'ho seguita con rigore giornaliero ma solo in un'occasione finora non mi sono trovato d'accordo - era qualcosa sull'euromediterraneo), di piacevoli leggerezza e semplicità, che ha in sé qualcosa dell'Aikido (usare i movimenti della mossa dell'avversario per rivoltarla contro se stessa, ed annullarla) e una spruzzata di maieutica socratica (lavora non tanto sull'affermazione-imposizione delle tue idee-posizioni ma sfrutta le affermazioni del dialogante, lavora su di queste, per aiutarlo a capire - e cercare di capire qualcosa tu stesso, nell'operazione). Fatto sta che le favole su una presunta nuova retorica politica, sognante e ispiratrice, sul ritorno della politica alle idee, ai valori, alla cultura e all'etica, ecc. ecc. ne escono a pezzi, senza il bisogno di grandi analisi -che possono essere rivolte ad oggetti più meritevoli- ma ridicolizzate dalle affermazioni che di queste favole dovrebbero essere invece la prova provata.

Si potrebbe obiettare che il giochino di estrapolare brevi frasi o spezzoni da libri, interviste, interventi completi lascia il fianco ad accuse di manipolazione e malafede; e che una coerenza e lucidità a tempo pieno non si possono pretendere nemmeno da un guru, da un maestro, da un profeta. Si tratta però di obiezioni molto fragili, dato che le citazioni non sono trabocchetti da fuori-onda o battute occasionali ma sono per la maggior parte tratte da quei testi, da quei libri e da questi discorsi che della presunta epica vendoliana dovrebbero rappresentare i libri sacri, o i decaloghi.

Poi ci sono puntate della rubrica come quella odierna. "A Sarajevo, dopo la guerra, una delle cose che mi sconvolse di più è che avevano tagliato tutti gli alberi perché servivano a scaldarsi". Sono i momenti in cui capisci che ci si può fare una risata, su queste cose. Che si può essere catturati dal senso di ridicolezza che la rubrica ricrea. Ma è possibile che arrivi, tra qualche mese, tra qualche anno, il momento in cui molti, migliaia, milioni, vedano in Vendola l'unica speranza, il salvatore, il sole dell'avvenire, e si battano perché possa vincere le elezioni. Politica economica, politica sociale, politica culturale, politica estera affidati a Vendola. Ad uno che a Sarajevo dopo la guerra si fa colpire dagli alberi tagliati. No, no, diciamolo come sa sbottare solo il cantante degli Offlaga Disco Pax: GLI ALBERI TAGLIATI. Ora: svuotare la mente, ripensare a questa prospettiva, rabbrividire ad libitum.


(parentesi di aneddoti personali. Ho conosciuto una volta, per poco tempo, qualche settimana, una persona deliziosa. Non l'avrei mai immaginato prima - una di quelle cose che scopri solo durante, o anche dopo. Purtroppo. Era stata una volta a Sarajevo - aveva un genitore croato. L'avevano colpita, in particolare, i segni delle pallottole ancora conficcate un po' ovunque, nei muri dei palazzi del centro. Ho un amico adesso a Sarajevo - quasi quasi come souvenir gli chiedo di tagliare e portarmi un albero della città.)

domenica 13 febbraio 2011

Almeno portate fuori la spazzatura, quando uscite.

Adesso tutti a guardare la Tunisia, l'Egitto, l'Algeria, probabilmente lo Yemen, la Siria difficile. Quotidiani e riviste fanno ricomparire i politologi, per il resto del tempo ammucchiati nei ripostigli (salvo rari casi) , e infatti sono impegnati a spazzare via i pezzettini di naftalina, mentre ne ospitano interventi o li intervistano. E visto che al cittadino medio (ma anche al lettore di quotidiano medio, al giornalista medio, al direttore di giornale medio) proprio non riesce di farsi una qualche idea su cosa possa essere una scienza sociale, già spunta più di un'accusa -in alcuni casi addirittura autoaccusa di un membro della categoria- simile a quella contro gli economisti allo scoppio della crisi.

Ma come diavolo è possibile che sia successo questo '48 senza che nessuno -nessuno- di voi ne avesse almeno un sentore? Ma a che diavolo ci servite, se non riuscite a darci una previsione mediamente accettata e condivisa di cosa succederà adesso?

Come se la politologia servisse a questo.

Effetti collaterali.

Una delle conseguenze dei fatti di queste settimane è che molti iniziano a sospettare -azzardiamo un capire?- quello che molti di noi universitari sospettavano -avevano capito- già da tempo.

Bocconi in fondo è solo un nome.

sabato 29 gennaio 2011

Ultime trovate contro la cronaca.

Ci sono persone che ci provano. Vengono a patti con i propri limiti -ne vengono a capo, si potrebbe anche dire- e con quel che resta si danno da fare. Compiono con professionalità il proprio lavoro e quello di uno si unisce a quello dell’altro, ed ancora, più volte, questi sforzi tenaci si uniscono, si rafforzano a vicenda, si saldano a formare un insieme di qualità, qualcosa che possa migliorare, in qualche modo, la vita degli altri. Ci sono persone poi, altre persone, che nel seguire queste strade, a testa bassa e con tenacia, meritano ancora maggiore attenzione. Perché in questo loro lavoro sono chiamati al sacrificio e all’abnegazione. Perché per loro potremmo scomodare – dal vocabolario della nostra mitologia civile – il termine eroe. E il suono altisonante, la luce classica che questa parola si porta dietro sono cose che arrivano dopo, a posteriori, a volte tirate per i capelli per un tentativo sghembo di risarcimento. Di classico addosso a quella parola, nel durante, non resta che la tragicità. E, una volta preso su di sé questo fardello, non ci si può nemmeno aspettare qualche piccola agevolazione, ma ostacoli anzi. Capita di ritrovarsi di fronte i demoni passati e capire che non erano scomparsi, si erano solo messi calmi in attesa del momento più duro per tornare più forti, marciare su un campo già vinto. Di vedersi scarnificare, strato a strato, di tutti gli ambienti confortevoli in cui si giocano i diversi ruoli della vita; tutto strappato lontano, finché non rimane altro che quella missione, bestia affamata e gelosa. Di smarrirsi e non riuscire più a capire, di dubitare sempre di più, più di quanto sia normale, o lecito, o auspicabile; di dubitare di se stessi – non delle proprie capacità, o motivazioni – della propria stessa esistenza – se è scritta, quante pagine ancora? Perfino di essere certi che non ci sia altra scelta, che solo annullandosi si potrà dare un contributo, che annullarsi è il solo contributo che ci è possibile – non si è destinati a sfide più grandi, per quelle restano i compagni, andandosene arriverà l’attenzione di molti e per alcuni, tra tanto orrore, la speranza – chi combatte per noi mette in conto la morte, la accetta, e lotterà anche oltre questo tabù ultimo.

Ci emoziona conoscere le storie di questi eroi. Non è così semplice passare sopra l’enfasi che li anima, il loro puntare dritto verso la Verità. D’altronde, è rimasto qualcosa che ci spaventa più dell’incontrare una maiuscola sulla nostra strada? L’idea che qualcuno ci creda, alle maiuscole, che ci corra incontro, che si senta chiamato. Le vocazioni sono pericolose, ci è stato insegnato, portano da brutte parti, il fanatismo, un furore che brucia. Ma probabilmente non è il caso di tenersi stretti tutti questi pudori – mollare gli ormeggi, le reticenze; abbracciare per una volta una causa per intero, abbandonandosi ad essa, senza lasciarsi frenare dai dubbi.

Ve ne convincerete di sicuro appena farò cenno al fatto che questi eroi, raminghi alla ricerca disperata della Verità, si trovano di fronte un pericolo ben più oscuro. Forze nere che li boicottano, che cercano in ogni modo di condannare all’insuccesso i loro sforzi, di metterli a tacere invocando le più odiose maledizioni. Di sicuro non li anima qualcosa di minore del Male. E qui arrivo al punto: se non siamo pronti a vestire i panni degli eroi, se non siamo propri adatti, cosa possiamo fare almeno, per aiutare chi combatte per noi? Farci vedette e sentinelle, guardar loro le spalle, sperando con questi piccoli sforzi di evitar loro qualche tranello. E quale fortuna, vivere oggi, quando in mille modi sempre nuovi questo compito viene agevolato. Non aspetteremo un momento di più, faremo finalmente la nostra parte. Vestiremo questo ruolo alla luce del sole, facendo sapere a tutto il mondo che parte abbiamo preso, bardando la nostra immagine con simboli e slogan. Riporteremo le frasi taglienti, lanciate dagli eroi contro gli oscuri signori, sulle nostre magliette, o gadget adatti. Apporremo il nostro sigillo in calce ad ogni strale, ad ogni invocazione, per dare ad essi una voce più grossa. Ci affideremo, per abbeverarci di quei stralci di verità che gli eroi avranno strappato al grande complotto, a quei cantori che hanno dato prova della loro fedeltà alla causa, loro che soli mossi da grande coraggio hanno urlato contro le mura più dure i fatti accaduti, raccogliendo di decina in decina le bugie trafugate, le omissioni spacciate. E se migliaia navigano, ognuno avrà cura di chiamarne altri a migliaia, finché almeno dieci milioni – madonna, quanti – saranno schierati. Sarà il momento della battaglia campale e non mancheranno striscioni e buone intenzioni.

Ma prima di arrivarci, dobbiamo muovere un passo d’inizio. Dobbiamo capire per quali battaglie vale la pena lottare. Ne troverete anche voi almeno una, come già ho fatto io – quella che vi sembrerà la più importante di tutte.



FlashForward 18 maggio 2010

venerdì 14 gennaio 2011


Ho parlato più di una volta in questo blog della sensazione di sentirsi sempre meno di sinistra. Potrà valere molto poco dal punto di vista pratico (come se avesse un senso definirsi di sinistra ora che le categorie ideologiche ecc; come se fosse sensato muoversi, posizionarsi, trovarsi a causa dell'identificazione in una fazione invece che prendere coscienza dei singoli elementi delle diverse situazioni concrete ecc.). Ci pensavo giusto oggi, nella tentazione di scrivere su Twitter "devo muovermi ad invecchiare, altrimenti divento un patetico giovane reazionario, e non un arcigno vecchio reazionario". Sul piatto della bilancia, tra i vantaggi, posso di sicuro mettere la perdita della capacità di indignarsi. Chissà a quanti sembrerà una bestialità, ma è un passo in avanti notevole. Perché se ci si fa prendere da quella tipica indignazione montante (ogni indignazione è montante e si autoriproduce, si avrebbe la tentazione di dire), quanto ci si rovina il fegato, quanto ci si riduce a macchietta (per quanto di moda, oggi), quanto si finisce sempre lontani dall'avere la capacità di capire, o almeno di cogliere, la portata intera della situazione che abbiamo davanti.

Quando poi succede ancora, di indignarsi, invece di concentrarmi su questa, finisco a perdermi a notare tutte le sensazioni che mi dà, questa specie di ritorno. Bisogna ammetterlo, una sorta di ventata fredda sul viso, rinvigorente (il mondo migliore, ancora! Robespierre, Robespierre). Ma subito dopo come se si fosse spinti a forza in una stanza tremendamente piccola, che andava bene da piccoli, ci si stava comodi e c'era pure lo spazio per disegnarsi attorno avventure continue. Adesso è stretta, ci si sta scomodi e inadeguati.

Mi è capitato qualche giorno fa, perché Signori miei dove sta andando a finire la stampa. Con sorpresa, per un articolo sul Foglio di Buttafuoco. Perché, diciamocelo, il Foglio è un ottimo giornale di opinione. Dite che devo metterci un "nonostante tutto"? Non ho problemi a mettercelo: anche per me c'è un enorme nonostante tutto. E, spariamola pure grossa, dirà quello che dirà, sarà quasi mai condivisibile per noi, ma al di là di contenuti e opinioni, non è spesso un gran piacere leggere qualcosa di Buttafuoco? E anche la rubrica non prometteva male! Scorretta e impertinente (ma l'impertinenza non è un valore nella stampa? Non gongolavamo quando il nostro Riformista nel jingle di qualche tempo fa si definiva il Pierino della politica?) finché vuoi, ma divertente davvero. Basti leggere della Bruni e di Moratti (Hubbbbner. Il Darione che ha giocato anche nella Pievigina!) per farsi un'idea. Ma il pezzo di Buttafuoco su Magris, quanto cattivo gusto. Un giudizio che può essere accusato di tutte le aberrazioni imputate a Magris nell'articolo stesso. Rigidità, soggezione al luogo comune e al perbenismo, grigiore. D'altronde sono di parte, per Magris ho sempre avuto un'infatuazione (per il Magris editorialista, a dire il vero, del resto non ho letto nulla). Eppure devo ammettere che. Probabilmente tutte le critiche che gli vengono mosse non sono poi così infondate (e d'altra parte: in fondo il buon senso non è spesso privo di guizzi, vicino a qualche luogo comune, e via discorrendo?). Rimane la questione del "modo e modo" e direi che è stato passato il segno. Squadraccia? Olio di ricino? Confino? E' un gioco, certo, va bene. Anzi, va bene fin là, non troppo in là.

Ma l'esempio peggiore è Mimun. Direte (potreste dire, avendo ragione da vendere): beh, ti aspetti qualcosa da Mimun? La colpa è tua, che leggi cosa scrive. Lo ammetto, peccato mio. Ma ho sempre avuto un debole per le riviste, ed in casa mia solitamente passa giusto Sorrisi e Canzoni. Nel quale, dopo una decina di pagine circa troneggia ogni settimana un editoriale del nostro. In questo numero non si è nascosto ed ha affrontato di petto uno dei fatti della settimana, con buone dosi di coraggio. Controcorrente: Lula ha fatto bene con Battisti (l'ho colto il lieve retrogusto di sarcasmo, non preoccupatevi). Diciamocelo. L'avessero portato qui, qualche giudice connivente l'avrebbe lasciato uscire dopo poco. E, per di più (pensi, signora mia), quei pochi anni dentro li avrebbe passati in modi da nababbi (lo sanno tutti, in fondo, che nelle carceri italiane si sta da dio. Se qualcuno si suicida è perché a finire lì dentro è gente per forza tarda, che non sa capire in che paradiso sia finita) e fuori l'avrebbero aspettato di nuovo l'editoria furbetta, le ospitate faziose, la santificazione bastarda. Per cui che se ne stia in Brasile dove, tra vizio e vizio, lo coglierà la malattia ed il dolore e che ci pensi il Padre Eterno alla giusta punizione. Non sbaglia, lui.

L'indignazione è da tutte le parti allora. E in fondo conta poco la parte a cui ti senti affine (oh, dirlo dopo tutte le volte che abbiamo ascoltato "occorre essere attenti e scegliersi la parte dietro la Linea Gotica"), è altro che conta davvero. L'importanza di non essere Mimun.