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venerdì 3 giugno 2011

Il mare non va bene.

Perché la sabbia si infila dappertutto, la gente tira fuori il peggio di sé, c'è troppo sole, si rischia perfino di abbronzarsi. Come dei Michael Jackson alla rovescia.

Ma tutto qui. Non è che il mare non vada bene anche per altri motivi. Vi diranno, con occhi indignati, che il mare non va bene perché votare è un diritto, sì, ma è anche un dovere. Rispolverano la cara vecchia categoria del diritto-dovere.

Il motivo è che in Italia non c'è una religione civile, sospetto. A doverla costruire, per di più con gli sforzi provenienti da un'unica parte, ci si deve rifugiare nelle categorie che incutono timore, anche se non significano nulla.

Va da sé che non sia un dovere. Un dovere è un comportamento o un'azione che si è tenuti ad adottare a favore della società, delle istituzioni, dell'ordinamento legislativo (a differenza dell'obbligo, i cui "intestatari" sono specifiche persone e non la collettività nel suo insieme). Parte fondamentale del dovere è la sanzione prevista in caso di un suo mancato rispetto, tanto da costituirne un elemento fondativo. Non può essere questo il caso: ho un (spero falso, visto l'abominio in questione) vago ricordo, quando ero piccolo, di una proposta che era circolata, al primo manifestarsi di un astensionismo rilevante in Italia, presi dalla paura che si finisse come in America, di limitare in qualche modo il diritto di voto attivo di chi per un certo numero di elezioni non lo avesse esercitato. Ovviamente un Paese civile non approverebbe mai una simile norma.

Forse meno immediato è il concetto che il diritto di voto non possa essere un dovere. Quello che consideriamo il sistema desiderabile per antonomasia, la democrazia (continuiamo a chiamarla democrazia, fingendo che la sua desiderabilità non stia nel fatto che si tratti di una democrazia liberale), è il sistema che ha permesso ai cittadini di essere titolari, intestatari, della sovranità, e in quanto tali titolari anche del diritto, salvo rare eccezioni e limitazioni, di esercitarla. Il cittadino può concorrere all'esercizio del potere, attraverso diritti di elettorato passivo e attivo. Ma, appunto, di possibilità si tratta. I sistemi in cui la partecipazione dei cittadini è pretesa sono o sistemi arcaici (la democrazia greca) oppure sistemi alquanto...sinistri? La partecipazione di massa e obbligatoria è una caratteristica fondamentale del fascismo e del nazismo, ad esempio. Tutti cooptati.

Volete per forza uno slogan facile e accattivante? Una frase da Bacio che sostituisca la stupida "Votare è un diritto ma anche un dovere"? Provate a usare questa: "il diritto di voto è un diritto fondamentale tanto quanto il diritto di non voto". Suona peggio? Almeno è sensata.

martedì 24 maggio 2011

Relazioni internazionali for dummies/1

A chi fosse un principiante, a voler fare i brillanti si può descrivere la materia di studi "relazioni internazionali" come un campo sterminato, a perdita d'occhio, delle teorie più balzane e disparate, allineate secondo il principio "tu provaci" (la presunta scientificità è infatti al massimo una vaga aspirazione; per riuscire in qualche modo ad arrivare a un sistema che permetta di spiegare contemporaneamente più di un fenomeno, o di azzeccare qualche previsione, l'unico metodo possibile -il metodo effettivamente usato, oggi- consiste nell'avanzare un numero sterminato di teorie, che finiscano per comprendere se non tutte le possibilità del reale -impossibile, si penserà- la maggior parte di esse. Questa applicazione alla buona dell'idea "tanti pesci nel mare" è conveniente per tutti: il pesciolino fortunato nel caso in questione ottiene una discreta fama, chi ha toppato non si vede presentare nessun conto -a patto di non uscirsene con il motto più stupido di sempre, come Fukuyama- la disciplina, presso l'opinione pubblica, non perde parte del suo credito, già giocato tutto in precedenza). Dicevamo: un campo sterminato delle teorie più disparate e spesso balzane, che si estende tra le fila ordinate di frasi memorabili pronunciate da personaggi destinati a essere eterni o a essere dimenticati il giorno seguente, al di là di quella frase. Frasi perfette, cinematografiche. Dignitose. Eroiche. Pop. Ironiche dell'ironia più raffinata. Sarcastiche del sarcasmo più affilato. Troppo stupide o goffe per essere vere. Definitive. Lo sappiamo tutti, in questo campo, che l'unico vero guadagno è una batteria infallibile di citazioni e aneddoti, da giocarsi nelle discussioni e negli aperitivi.

Oggi Netanyahu se n'è uscito con una frase del genere. Inesorabile e teatrale. Perfetta nel riassumere gli ultimi fastidi israeliani. Con la più bella goccia di risentimento distillato che abbia mai letto nero su bianco.

"Mr. President, you don't need to do nation building in Israel. We're already built."

sabato 30 aprile 2011

Se avete perso

L'ultima lezione di Diplomazia.

venerdì 15 aprile 2011

Una corona per ogni menestrello

Nell'ultima settimana sulla stampa internazionale è tornato in auge il tema del ruolo pubblico ed etico dell'artista. Non tanto per un rilancio del dibattito teorico su quale sia, o debba essere, questo ruolo, quanto piuttosto una grande enfasi su una manciata di casi concreti e di polemiche. Dei concerti cinesi di Dylan e della sua accettazione di una (ancora difficile capire se effettiva o presunta) censura da parte della autorità della scaletta si è occupata in pratica tutta la stampa anglosassone. L'edizione inglese dello Spiegel ha invece pubblicato una lunga intervista all'architetto Meinhard von Gerkan. In entrambi i casi, si parla di Cina - una buona dose della mia obiettività va a farsi friggere.

Per chiudere la questione Dylan sarebbe più che sufficiente richiamare un intervento su un blog del Guardian. Quello che scrive Jonathan Jones merita di essere letto fino in fondo, ma già alcune frasi del primo capoverso rispondono più che a dovere a tutte le polemiche nate. "What a lot of nonsense: if you thought Dylan would ever take an obvious political line you haven't been following him carefully enough." "It's understandable for human-rights campaigners to wish for public support from Dylan. It is obtuse, however, for them to suggest that he is somehow betraying his own values as a political songwriter by not protesting."

L'intervista di von Gerkan merita invece un numero maggiore di citazioni. In parte perché è lecito credere che abbiamo avuto minore diffusione degli articoli su Dylan; in parte perché quello che l'architetto dice -non sempre in modo posato e lucido, a tratti spazientito dall'intervistatore- è spesso condivisibile e sempre interessante; in parte infine perché l'intervista nel suo insieme è un buon esempio di qualcosa che penso da molto ma che generalmente è difficile sostenere a dovere: se siamo sempre pronti a deprecare lo scarso servizio offerto da giornalisti ed interviste eccessivamente timidi e assoggettati, bisognerebbe al tempo stesso rivedere l'idea del giornalista come un cane ringhioso, che fa il suo dovere solo se si arma di insistenza oltre ogni limite, rifiuto sprezzante di ogni assoggettamento all'intervistato, una buona dose di malizia.

Alcune frasi di von Gerkan:

"Instead of bringing calm to the situation, actions like Ai's arrest will only incite the protesters even further. I don't understand the Chinese in this regard."
"There is no question that there are still many deplorable incidents, but one thing is clear: never in Chinese history has there been this much freedom for the individual."
"Willy Brandt said that change is possible through rapprochement, not through embargoes."
"Believe me, there is a big difference between East Germany and today's China. I experienced the East German system up close, because I studied in Berlin. What i experienced at the time -the level of inhuman behavior- doesn't exist in China by a long shot."
"Based on that argument, one would have to conclude that no one should be allowed to build in Germany anymore, either. Germany as a whole is contaminated."
"This idea of only wanting to work for private individuals is absurd. In a country like China, where does private end and where does government-owned begin?"
"You shouldn't overestimate the social role and function of an architect -even when he plays a somewhat bigger role in the public's perception, as I do. An architect has a limited ability to influence things."
"But it's also erroneous to say that the architect must realize his potential in every building. Architect must primarily react to the location."
"In the case of the National Museum in Beijing, the changes were part of a discursive process."

Quando si arriva al ruolo pubblico o sociale degli artisti, si sta un attimo a farsi fuorviare. Quelli che sostengono che questo ruolo sociale esista, e che molto spesso si sentono in diritto di giudicare se e come questo sia stato rispettato, lo fanno generalmente sulla base di uno di questi due ragionamenti. Possono essere convinti che un simile ruolo morale lo abbia ognuno, ogni persona. Oppure possono essere convinti che gli artisti abbiano questo ruolo proprio per la loro attività o visibilità, e che sia appunto questo aspetto ad assegnare loro un dovere che le persone comuni non hanno. In entrambi i casi, ci si sbaglia di grosso.

Nel primo, è più che lecito sospettare di trovarsi davanti ad un giacobino. Qualcuno che crede di aver trovato -senza possibilità di errore- quelle virtù morali che sono non semplicemente auspicabili o apprezzabili ma doverose e pretendibili. Chi non le manifesti o non le eserciti commette a tutti gli effetti un peccato od un reato -nei migliori dei casi dovrà essere chiamato a renderne conto, nel peggiore costretto a farne pubblica ammenda e rieducato, perché non accada nuovamente. Il perché si pretenda la mobilitazione morale di massa ha molto a che fare con un concetto di lunga data che da qualche decennio viene immancabilmente espresso con un verso di De André: "Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti." Balle. Davvero, balle, balle, balle. Non tutti sono immancabilmente coinvolti in ogni caso, qualunque cosa succeda, qualunque siano i diversi elementi delle diverse situazioni. Le responsabilità bisognerebbe stare attenti a maneggiarle, e ancora di più ad affibbiarle. Se qualcuno se le vuole assumere di suo conto, fantastico, ma nel momento in cui si voglia invece affibbiarle, bisognerebbe usare tutte le premure e precauzioni possibili.

Nel secondo, ci troviamo di fronte ad una mania abbastanza diffusa. Le persone pubbliche, soprattutto se si tratta di attori, scrittori, musicisti, finiscono sepolte sotto una marea di doveri che abbiamo deciso unilateralmente di assegnare loro. C'entra la falsa prospettiva da cui le guardiamo, per cui finiamo per spogliarle dei normali elementi di umanità che proviamo per chiunque altro ci stia vicino. C'entra il modo in cui avvertiamo i mille privilegi che attribuiamo loro -in parte questi privilegi ci sono, in parte li ingigantiamo, in parte non siamo minimamente disposti a considerare i molti svantaggi che costituiscono l'altro lato della medaglia. Un artista in realtà ha, nei confronti del proprio pubblico, ben pochi doveri. Pubblica un'opera e la condivide con il pubblico, con chi si dimostra disponibile a leggerla, vederla, ascoltarla. La decisione di leggerla, vederla, ecc. è presa di propria spontanea iniziativa da chi ne usufruisce -senza alcuna costrizione dell'artista. Questo artista ricava (al giorno d'oggi: per quanto possibile) un compenso per l'aver impiegato le proprie capacità nella produzione di un'opera. Se l'opera si rivela essere di basso valore, chi ne entra in contatto non acquista un diritto di rivendicazione nei confronti dell'artista; ha pieno diritto di esprimere la propria opinione e diffonderla, ma l'artista non è in alcun debito nei suoi confronti. E' lecito aspettarsi che un artista, nel lavoro di produzione di un'opera, impieghi una buona dose di diligenza. Al tempo stesso, nel momento in cui un'opera è prodotta e diffusa, non vedo il motivo per cui l'artista senta nei confronti di questa un dovere di fedeltà assoluta per l'eternità.

Questo vale, per esempio, anche per Bob Dylan. La sua carriera è stata lunga e piena di svolte. E' cambiato lui, è cambiata la sua ispirazione, sono cambiati i tempi. Bob Dylan non ha mai fatto mistero di ritenersi di volta in volta molto lontano dalle sue fasi precedenti. Ha continuato a cantare determinate canzoni nei concerti perché sapeva che molti si aspettavano questo da lui. Ma lo ha fatto decidendo sempre in relativa autonomia la propria scaletta, secondo le sue preferenze o, perché stupirsene, per convenienza. Pretendere che un artista vada contro la sua convenienza è sciocco. Nel momento in cui Bob Dylan è salito sul palco in Cina, aveva un unico obbligo: fare un buon concerto, cercando per quanto possibile di dare vita ad uno spettacolo che potesse avere una qualità sufficiente a soddisfare il pubblico. Le cronache lette sulla stampa non si avventurano mai a dare un giudizio sulla qualità del concerto. Spesso descrivono la tipologia di pubblico: sorge più di un dubbio che il pubblico presente si aspettasse, o desiderasse ardentemente, una "Blowin' in the Wind" o altre canzoni politiche. In parte era lì per la musica, e provate a chiedere a qualcuno che di musica ne capisce, di Dylan, e vedete se non vi parla di Highway 61 Revisited o di Blonde on Blonde (canonico), di Pat Garrett & Billy the Kid (multimediale), di Desire (ritardatario) oppure di Nashville Skyline (alternativo) o di Blood on the Tracks (particolarmente saggio). Per arrivare a The Freewheelin' Bob Dylan dovrete trascinarcelo, e allora vi parlerà di Girl from the North Country o di Don't Think Twice, it's All Right. Dovrete inchiodarlo, per farvi parlare delle canzoni politiche di The Freewheelin'. E allora a quel punto vi parlerà di Master of War o di A Hard Rain's A-Gonna Fall. Oppure erano lì per il simbolo, e per loro poteva anche starsene zitto, una volta salito sul palco.

E se Bob Dylan si fosse dato alla nuova svolta folk-di protesta? Chitarra imbracciata e versi taglienti verso il regime? Beh, lecito aspettarsi una nuova stretta verso la presenza degli artisti occidentali, come dopo Bjork. Poche notizie su Dylan in giro, magari nessuno scopre che ha scritto certe canzoni nella prima fase della carriera. Minore possibilità di conoscere l'arte occidentale -molte meno persone, magari, che scoprono Neil Young (Keep on rocking in the free world). Ma vuoi mettere? Bob Dylan che suona Blowin' in the Wind!
Si unisce allo sbeffeggiamento dello slogan dell'ultima fronda di ribellismo civico Adriano Sofri, nella rubrica Piccola Posta oggi sul Foglio (manca a dire il vero la parte finale, quell'"adesso" urlato ed invocato, che è il vero colpo di genio a rendere ridicolo lo slogan).

"Se non ora, quanto?"

Lo struzzonismo

Adesso che è stata approvata, si può provare a dare qualche giudizio. Non sulla legge in sé, visto che di rinvio in rinvio, di settimana in settimana, se n'è parlato talmente tanto nei giornali e nei talk show. Con buoni argomenti da entrambe le parti, con argomentazioni totalmente campate in aria da entrambe le parti, con un'insistenza e una ripetitività ossessiva, quando si pensava di aver trovato il punto giusto su cui battere, da entrambe le parti. Per cui, su questo, meglio andare a buffet. Che ognuno si prepari un piatto con quello che lo convince di più -e se riesce a farlo prendendo un po' da questo e un po' da quello, tanto meglio.

Proviamo a dire due cose sul comportamento del Pd (che novità, eh?). Con una prima precisazione, che non sarebbe necessaria, se la parola non fosse spuntata immancabilmente con un accento di disapprovazione in ogni tg in cui sia stata pronunciata: l'ostruzionismo è una tecnica più che legittima per un'opposizione parlamentare.

Ci siamo tutti innamorati nell'astratto di un modo di fare opposizione costruttivo, basato sulla disponibilità a collaborare per il miglioramento delle leggi, sulla presentazione di emendamenti per quegli articoli che proprio non vanno, su dibattiti ispirati, chiari e puntuali sugli argomenti in questione. Contemporaneamente non abbiamo avuto troppe riserve nel contestare chi declinava la pratica dell'opposizione unicamente sotto forma di slogan, lotte dure, aventini annunciati o praticati. Tutto buono, tutto giusto, a patto di non finire per rifiutare l'idea dell'ostruzionismo come pratica lecita, accettabile, efficace.

Il problema allora è capire quando darsi all'ostruzionismo può avere un senso. Giusto per non far venire meno il gusto dei bivi e delle dicotomie, i casi sono due. L'ostruzionismo può avere senso come simbolo, come gesto in sé: la legge è talmente sbagliata, talmente aberrante, un passo indietro per il vivere civile, un danno per l'intero Paese, che come opposizione ci sentiamo in dovere di tirare su un muro -perché voi maggioranza vi rendiate conto, di quanto siamo indignati, e magari abbiate un'illuminazione e rinsaviate; perché nel Paese si sappia, quanto è negativa la misura che sta per essere adottata, e l'opinione pubblica ne diventi cosciente; perché nessuno mai abbia l'ardire di considerarci complici di quello che viene fatto. L'altro caso è una funzionalità pratica della tattica. Faccio ostruzionismo, rallento a dismisura i lavori, faccio sì che ogni singola votazione sia portata avanti con un ritmo sfibrante, e in questo modo aumento la possibilità che su ogni singolo articolo votato venga meno il numero di voti necessari per l'approvazione. Con una lunga lista di possibili risultati: riesco a dare l'idea di una maggioranza in difficoltà, se ogni singola votazione diventa un rebus; ci riesco ancora meglio, se un certo numero di volte la maggioranza va sotto; è possibile che non siano approvati quegli articoli che trovo più inaccettabili; magari si affossa l'intera legge.

E in questo caso concreto? Non si era davvero nel secondo caso. Alcuni piccoli risultati erano già stati "portati a casa": molto rumore sulla questione, ampia copertura della stampa e quindi informazione dell'opinione pubblica, in un certo qual modo (al di là dei numeri finali dell'approvazione) si era dato ancora una volta l'idea della fragilità della maggioranza -presenze controllate con piglio da gendarmi, ministri fissi in aula, perfino il Consiglio dei Ministri tenuto in Parlamento. Gli altri risultati - quelli "concreti", non solo morali- non erano raggiungibili. Non che non lo fossero già dall'inizio, dato che non si era posta la fiducia, ma lo erano diventati almeno da quanto si era deciso, prevedibilmente, di procedere con il voto non segreto. Per cui le uniche ragioni dell'ostruzionismo rimanevano ideali, simboliche. Si potrebbe discutere se fosse il caso, se la situazione e la legge in questione fossero davvero da allarme democratico (no, il mio parere). Forse è meglio interrogarsi sull'opportunità di questo comportamento. Innanzitutto, un simbolo è reso più efficace dalla sua intensità. Meglio qualcosa di forte, deciso, ma di breve durata, rispetto a qualcosa che si trascina, fino all'inesorabile punto in cui inizierà a boccheggiare -e a puzzare- come un pesce. Fai il tuo gesto simbolico, ne godi i frutti, torni alle normali attività. Ma al di là dei risultati, dell'utilità, c'è anche una questione di principio. Uno dei punti-chiave della tua retorica è "hanno occupato il Parlamento per mille secoli con una questione secondaria, che non fa gli interessi del Paese, che fa gli interessi solo di poche persone, se non una". Declinato anche nella variante "questa maggioranza sta svilendo e compromettendo il ruolo del Parlamento". FANTASTICO. Detto senza ironia. Per una volta hai avuto l'accortezza di sceglierti una battaglia significativa e importante. Non una battaglia che puoi condurre senza alcuna attenzione ai modi, visto che allo svilimento del ruolo e dei lavori del Parlamento hanno contributo anche i governi di centro-sinistra, ma una battaglia che puoi comunque cavalcare con credibilità, visto che il momento più negativo di questo processo è ancora legato al secondo governo Berlusconi. Una battaglia di quelle di una volta, si potrebbe dire: che guarda al livello di civiltà e di dignità del Paese, che può avere effetti concreti sul miglioramento della politica e dell'amministrazione, che tocca alti livelli intellettuali e morali, ma ha al tempo stesso legami con la vita della gente. E come decidi di portarla avanti? Cercando di trasformare il Parlamento in un Vietnam nella speranza che la maggioranza incappi in una qualche imboscata? Allungando ancora a dismisura, di settimana in settimana, i lavori che stanno bloccando il Parlamento e intaccandone il senso ed il valore? Facendo il teatrino della recitazione degli articoli della Costituzione (contribuendo al processo di esaltazione e difesa acritica e fondamentalista della Costituzione sempre più diffuso? Dando una mano a svuotare sempre di più il testo dei suoi valori e della sua importanza, banalizzandolo a mantra spendibile in tutte le stagioni, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni?) invece di lanciarti in discorsi ispirati e vibranti, giusto la volta che ti capita di avere le carte buone in mano? Eterogenesi dei fini, si potrebbe dire, ricorrendo ad una categoria usata tutte le stagioni, in tutte le occasioni.

(poi ci sono anche i cori su Cicchitto - ma è questione diversa dall'ostruzionismo, anche se pure ha a che fare con il modo in cui il Pd opera in Parlamento. Poi ci sono le sparate di Asor Rosa e affini, e il degrado sempre maggiore delle manifestazioni davanti a Montecitorio. Ecco, bisogna stare attenti a dividere responsabilità da responsabilità, e a volerne vedere dove non ci sono. Ma un ostruzionismo abbastanza fanatico, sfibrante, boccheggiante di sicuro non aiuta).

domenica 3 aprile 2011

"E' una ruota che gira...

...che gira e se ne va, ma ritorna e dopo parte, gira gira e se ne va" (cit.)

* una ragione per cui sarebbe sbagliato scriverci Sarkozy.

** una seconda ragione per cui ecc ecc.

*** il 100% della persona campione intervistata ha concordato nell'individuare Bidasio come simbolo più esemplificativo dell'inferiorità e del basso valore del popolo della Destra Piave. Perché, nonostante ora anche le liste elettorali avvallino varie voci sull'esistenza di una Razza Piave, è più che evidente a qualunque persona dotata di comune buonsenso e di discreta capacità di osservazione che le persone punite da Dio con un'origine DP manifestano nasi larghi e schiacciati, pigmentazioni meno eleganti, capelli che inevitabilmente si sviluppano in nidi indistricabili e dall'aspetto sgradevole e, a differenza di quanto sarebbe lecito attendersi a questo punto, misure decisamente inadatte a soddisfare una donna. L'identità della persona campione verrà ovviamente omessa, a tutela della privacy e per evitare spiacevoli incidenti.

martedì 29 marzo 2011

Il sonno della ragione non genera solo Borghezi.

Immagino che chi abbia seguito, anche saltuariamente, questo blog o il mio account su Twitter si sia accorto che su Vendola ho il dente avvelenato. Gli ultimi post dovrebbero aver chiarito che sono un grande fan della rubrica di Cerasa sul Foglio "Nichi ma che stai a di'?". Una rubrica di rara efficacia (non l'ho seguita con rigore giornaliero ma solo in un'occasione finora non mi sono trovato d'accordo - era qualcosa sull'euromediterraneo), di piacevoli leggerezza e semplicità, che ha in sé qualcosa dell'Aikido (usare i movimenti della mossa dell'avversario per rivoltarla contro se stessa, ed annullarla) e una spruzzata di maieutica socratica (lavora non tanto sull'affermazione-imposizione delle tue idee-posizioni ma sfrutta le affermazioni del dialogante, lavora su di queste, per aiutarlo a capire - e cercare di capire qualcosa tu stesso, nell'operazione). Fatto sta che le favole su una presunta nuova retorica politica, sognante e ispiratrice, sul ritorno della politica alle idee, ai valori, alla cultura e all'etica, ecc. ecc. ne escono a pezzi, senza il bisogno di grandi analisi -che possono essere rivolte ad oggetti più meritevoli- ma ridicolizzate dalle affermazioni che di queste favole dovrebbero essere invece la prova provata.

Si potrebbe obiettare che il giochino di estrapolare brevi frasi o spezzoni da libri, interviste, interventi completi lascia il fianco ad accuse di manipolazione e malafede; e che una coerenza e lucidità a tempo pieno non si possono pretendere nemmeno da un guru, da un maestro, da un profeta. Si tratta però di obiezioni molto fragili, dato che le citazioni non sono trabocchetti da fuori-onda o battute occasionali ma sono per la maggior parte tratte da quei testi, da quei libri e da questi discorsi che della presunta epica vendoliana dovrebbero rappresentare i libri sacri, o i decaloghi.

Poi ci sono puntate della rubrica come quella odierna. "A Sarajevo, dopo la guerra, una delle cose che mi sconvolse di più è che avevano tagliato tutti gli alberi perché servivano a scaldarsi". Sono i momenti in cui capisci che ci si può fare una risata, su queste cose. Che si può essere catturati dal senso di ridicolezza che la rubrica ricrea. Ma è possibile che arrivi, tra qualche mese, tra qualche anno, il momento in cui molti, migliaia, milioni, vedano in Vendola l'unica speranza, il salvatore, il sole dell'avvenire, e si battano perché possa vincere le elezioni. Politica economica, politica sociale, politica culturale, politica estera affidati a Vendola. Ad uno che a Sarajevo dopo la guerra si fa colpire dagli alberi tagliati. No, no, diciamolo come sa sbottare solo il cantante degli Offlaga Disco Pax: GLI ALBERI TAGLIATI. Ora: svuotare la mente, ripensare a questa prospettiva, rabbrividire ad libitum.


(parentesi di aneddoti personali. Ho conosciuto una volta, per poco tempo, qualche settimana, una persona deliziosa. Non l'avrei mai immaginato prima - una di quelle cose che scopri solo durante, o anche dopo. Purtroppo. Era stata una volta a Sarajevo - aveva un genitore croato. L'avevano colpita, in particolare, i segni delle pallottole ancora conficcate un po' ovunque, nei muri dei palazzi del centro. Ho un amico adesso a Sarajevo - quasi quasi come souvenir gli chiedo di tagliare e portarmi un albero della città.)

sabato 26 marzo 2011

Per tutti quelli che...

...sì, la Turchia in Europa, e poi cosa?!

Pur con il problema della presunta (effettiva?) reislamicizzazione della scena politica e del quadro istituzionale - con le annesse accuse di censura, misure repressive e intimidazioni della stampa e della cultura, raccontate per esempio oggi sul Foglio (un po' sbrigativamente, a dire il vero) - la Turchia sta diventando una volta di più l'argine ultimo contro una folla di barbari vocianti, riottosi, violenti, con malcelati intenti di saccheggio, guidati da capi con un filo di bava alla bocca e bene attenti a tenere un controllo demagogico sulla propria tribù. La Francia.

(Lungi da me sottovalutare i rischi di un revival islamista sulla società, ma non può forse essere che questa fase - esecrabile, certo - sia il diretto effetto di una laicità che è durata a lungo, ma che non poteva essere eterna, fondata com'era su fragili basi, sull'aver reso intoccabile e mitologico il lascito di Ataturk, sull'aver così deliberatamente infognato quello che poteva essere un brillante inizio - da cementare, sviluppare, migliorare - prendendolo per un glorioso punto di arrivo? Non è che forse un dibattito sul ruolo dell'Islam in una società sinceramente democratica è necessario - certo, certo, inquadrato in un contesto di garanzie maggiori rispetto a quelle attuali - e che forse va messo in preventivo che il risultato possa essere una laicità meno muscolare?)

sabato 12 marzo 2011

In questo momento medesimo.

Anche se impossibilitato ad essere con voi, causa salute cagionevole, sappiate che sono con voi, in piazza, nelle strade, a manifestare per la Costituzione, per l'istruzione pubblica, per l'istruzione pudìca, per l'indignazione, per la magistratura, per la fritura (de pès), per le torte di limone fatte come una volta, per il cavolo cappuccio.

Oh, se ci fossi, che slogan accattivante avrei trovato, per la difesa del cavolo cappuccio.

Ma non temete, vi seguirò orgoglioso da Rai News. Resisterò fino all'ultimo, fino allo stremo - che immagino coinciderà con l'intervento di Fo, se la volta scorsa mi ha insegnato qualcosa.

(come si fa a non trovare adorabile delle gente che si è scelta come slogan un non-sense logico? Partecipazione ed ardore fin oltre il senso del ridicolo).

domenica 13 febbraio 2011

Effetti collaterali.

Una delle conseguenze dei fatti di queste settimane è che molti iniziano a sospettare -azzardiamo un capire?- quello che molti di noi universitari sospettavano -avevano capito- già da tempo.

Bocconi in fondo è solo un nome.

sabato 29 gennaio 2011

Ultime trovate contro la cronaca.

Ci sono persone che ci provano. Vengono a patti con i propri limiti -ne vengono a capo, si potrebbe anche dire- e con quel che resta si danno da fare. Compiono con professionalità il proprio lavoro e quello di uno si unisce a quello dell’altro, ed ancora, più volte, questi sforzi tenaci si uniscono, si rafforzano a vicenda, si saldano a formare un insieme di qualità, qualcosa che possa migliorare, in qualche modo, la vita degli altri. Ci sono persone poi, altre persone, che nel seguire queste strade, a testa bassa e con tenacia, meritano ancora maggiore attenzione. Perché in questo loro lavoro sono chiamati al sacrificio e all’abnegazione. Perché per loro potremmo scomodare – dal vocabolario della nostra mitologia civile – il termine eroe. E il suono altisonante, la luce classica che questa parola si porta dietro sono cose che arrivano dopo, a posteriori, a volte tirate per i capelli per un tentativo sghembo di risarcimento. Di classico addosso a quella parola, nel durante, non resta che la tragicità. E, una volta preso su di sé questo fardello, non ci si può nemmeno aspettare qualche piccola agevolazione, ma ostacoli anzi. Capita di ritrovarsi di fronte i demoni passati e capire che non erano scomparsi, si erano solo messi calmi in attesa del momento più duro per tornare più forti, marciare su un campo già vinto. Di vedersi scarnificare, strato a strato, di tutti gli ambienti confortevoli in cui si giocano i diversi ruoli della vita; tutto strappato lontano, finché non rimane altro che quella missione, bestia affamata e gelosa. Di smarrirsi e non riuscire più a capire, di dubitare sempre di più, più di quanto sia normale, o lecito, o auspicabile; di dubitare di se stessi – non delle proprie capacità, o motivazioni – della propria stessa esistenza – se è scritta, quante pagine ancora? Perfino di essere certi che non ci sia altra scelta, che solo annullandosi si potrà dare un contributo, che annullarsi è il solo contributo che ci è possibile – non si è destinati a sfide più grandi, per quelle restano i compagni, andandosene arriverà l’attenzione di molti e per alcuni, tra tanto orrore, la speranza – chi combatte per noi mette in conto la morte, la accetta, e lotterà anche oltre questo tabù ultimo.

Ci emoziona conoscere le storie di questi eroi. Non è così semplice passare sopra l’enfasi che li anima, il loro puntare dritto verso la Verità. D’altronde, è rimasto qualcosa che ci spaventa più dell’incontrare una maiuscola sulla nostra strada? L’idea che qualcuno ci creda, alle maiuscole, che ci corra incontro, che si senta chiamato. Le vocazioni sono pericolose, ci è stato insegnato, portano da brutte parti, il fanatismo, un furore che brucia. Ma probabilmente non è il caso di tenersi stretti tutti questi pudori – mollare gli ormeggi, le reticenze; abbracciare per una volta una causa per intero, abbandonandosi ad essa, senza lasciarsi frenare dai dubbi.

Ve ne convincerete di sicuro appena farò cenno al fatto che questi eroi, raminghi alla ricerca disperata della Verità, si trovano di fronte un pericolo ben più oscuro. Forze nere che li boicottano, che cercano in ogni modo di condannare all’insuccesso i loro sforzi, di metterli a tacere invocando le più odiose maledizioni. Di sicuro non li anima qualcosa di minore del Male. E qui arrivo al punto: se non siamo pronti a vestire i panni degli eroi, se non siamo propri adatti, cosa possiamo fare almeno, per aiutare chi combatte per noi? Farci vedette e sentinelle, guardar loro le spalle, sperando con questi piccoli sforzi di evitar loro qualche tranello. E quale fortuna, vivere oggi, quando in mille modi sempre nuovi questo compito viene agevolato. Non aspetteremo un momento di più, faremo finalmente la nostra parte. Vestiremo questo ruolo alla luce del sole, facendo sapere a tutto il mondo che parte abbiamo preso, bardando la nostra immagine con simboli e slogan. Riporteremo le frasi taglienti, lanciate dagli eroi contro gli oscuri signori, sulle nostre magliette, o gadget adatti. Apporremo il nostro sigillo in calce ad ogni strale, ad ogni invocazione, per dare ad essi una voce più grossa. Ci affideremo, per abbeverarci di quei stralci di verità che gli eroi avranno strappato al grande complotto, a quei cantori che hanno dato prova della loro fedeltà alla causa, loro che soli mossi da grande coraggio hanno urlato contro le mura più dure i fatti accaduti, raccogliendo di decina in decina le bugie trafugate, le omissioni spacciate. E se migliaia navigano, ognuno avrà cura di chiamarne altri a migliaia, finché almeno dieci milioni – madonna, quanti – saranno schierati. Sarà il momento della battaglia campale e non mancheranno striscioni e buone intenzioni.

Ma prima di arrivarci, dobbiamo muovere un passo d’inizio. Dobbiamo capire per quali battaglie vale la pena lottare. Ne troverete anche voi almeno una, come già ho fatto io – quella che vi sembrerà la più importante di tutte.



FlashForward 18 maggio 2010

venerdì 14 gennaio 2011


Ho parlato più di una volta in questo blog della sensazione di sentirsi sempre meno di sinistra. Potrà valere molto poco dal punto di vista pratico (come se avesse un senso definirsi di sinistra ora che le categorie ideologiche ecc; come se fosse sensato muoversi, posizionarsi, trovarsi a causa dell'identificazione in una fazione invece che prendere coscienza dei singoli elementi delle diverse situazioni concrete ecc.). Ci pensavo giusto oggi, nella tentazione di scrivere su Twitter "devo muovermi ad invecchiare, altrimenti divento un patetico giovane reazionario, e non un arcigno vecchio reazionario". Sul piatto della bilancia, tra i vantaggi, posso di sicuro mettere la perdita della capacità di indignarsi. Chissà a quanti sembrerà una bestialità, ma è un passo in avanti notevole. Perché se ci si fa prendere da quella tipica indignazione montante (ogni indignazione è montante e si autoriproduce, si avrebbe la tentazione di dire), quanto ci si rovina il fegato, quanto ci si riduce a macchietta (per quanto di moda, oggi), quanto si finisce sempre lontani dall'avere la capacità di capire, o almeno di cogliere, la portata intera della situazione che abbiamo davanti.

Quando poi succede ancora, di indignarsi, invece di concentrarmi su questa, finisco a perdermi a notare tutte le sensazioni che mi dà, questa specie di ritorno. Bisogna ammetterlo, una sorta di ventata fredda sul viso, rinvigorente (il mondo migliore, ancora! Robespierre, Robespierre). Ma subito dopo come se si fosse spinti a forza in una stanza tremendamente piccola, che andava bene da piccoli, ci si stava comodi e c'era pure lo spazio per disegnarsi attorno avventure continue. Adesso è stretta, ci si sta scomodi e inadeguati.

Mi è capitato qualche giorno fa, perché Signori miei dove sta andando a finire la stampa. Con sorpresa, per un articolo sul Foglio di Buttafuoco. Perché, diciamocelo, il Foglio è un ottimo giornale di opinione. Dite che devo metterci un "nonostante tutto"? Non ho problemi a mettercelo: anche per me c'è un enorme nonostante tutto. E, spariamola pure grossa, dirà quello che dirà, sarà quasi mai condivisibile per noi, ma al di là di contenuti e opinioni, non è spesso un gran piacere leggere qualcosa di Buttafuoco? E anche la rubrica non prometteva male! Scorretta e impertinente (ma l'impertinenza non è un valore nella stampa? Non gongolavamo quando il nostro Riformista nel jingle di qualche tempo fa si definiva il Pierino della politica?) finché vuoi, ma divertente davvero. Basti leggere della Bruni e di Moratti (Hubbbbner. Il Darione che ha giocato anche nella Pievigina!) per farsi un'idea. Ma il pezzo di Buttafuoco su Magris, quanto cattivo gusto. Un giudizio che può essere accusato di tutte le aberrazioni imputate a Magris nell'articolo stesso. Rigidità, soggezione al luogo comune e al perbenismo, grigiore. D'altronde sono di parte, per Magris ho sempre avuto un'infatuazione (per il Magris editorialista, a dire il vero, del resto non ho letto nulla). Eppure devo ammettere che. Probabilmente tutte le critiche che gli vengono mosse non sono poi così infondate (e d'altra parte: in fondo il buon senso non è spesso privo di guizzi, vicino a qualche luogo comune, e via discorrendo?). Rimane la questione del "modo e modo" e direi che è stato passato il segno. Squadraccia? Olio di ricino? Confino? E' un gioco, certo, va bene. Anzi, va bene fin là, non troppo in là.

Ma l'esempio peggiore è Mimun. Direte (potreste dire, avendo ragione da vendere): beh, ti aspetti qualcosa da Mimun? La colpa è tua, che leggi cosa scrive. Lo ammetto, peccato mio. Ma ho sempre avuto un debole per le riviste, ed in casa mia solitamente passa giusto Sorrisi e Canzoni. Nel quale, dopo una decina di pagine circa troneggia ogni settimana un editoriale del nostro. In questo numero non si è nascosto ed ha affrontato di petto uno dei fatti della settimana, con buone dosi di coraggio. Controcorrente: Lula ha fatto bene con Battisti (l'ho colto il lieve retrogusto di sarcasmo, non preoccupatevi). Diciamocelo. L'avessero portato qui, qualche giudice connivente l'avrebbe lasciato uscire dopo poco. E, per di più (pensi, signora mia), quei pochi anni dentro li avrebbe passati in modi da nababbi (lo sanno tutti, in fondo, che nelle carceri italiane si sta da dio. Se qualcuno si suicida è perché a finire lì dentro è gente per forza tarda, che non sa capire in che paradiso sia finita) e fuori l'avrebbero aspettato di nuovo l'editoria furbetta, le ospitate faziose, la santificazione bastarda. Per cui che se ne stia in Brasile dove, tra vizio e vizio, lo coglierà la malattia ed il dolore e che ci pensi il Padre Eterno alla giusta punizione. Non sbaglia, lui.

L'indignazione è da tutte le parti allora. E in fondo conta poco la parte a cui ti senti affine (oh, dirlo dopo tutte le volte che abbiamo ascoltato "occorre essere attenti e scegliersi la parte dietro la Linea Gotica"), è altro che conta davvero. L'importanza di non essere Mimun.

martedì 21 dicembre 2010

Appunti per un talk-show.

La vecchia storia del così si passa dalla parte della ragione a quella del torto, ma non proprio uguale. Partiamo da più lontano. Chiunque guardi dei talk-show politici (io ne sono malato) sa bene che la bassa qualità di questi programmi è un simbolo facile facile dei problemi del mondo della politica del paese. Uno che su questo tema si è speso molto, tanto per citare un nome, è Luca Sofri (ok, si, va bene, qui citiamo sempre lui. Fatevene una ragione). I tre problemi più evidenti di questi talk-show -non gli unici, ma quelli che saltano agli occhi di chiunque li guardi, o quasi- sono: una parte consistente degli ospiti si pone il compito non di partecipare allo sviluppo di un dibattito e di rispondere nel merito delle domande che le viene posta, o delle tesi avanzate dalle altre parti, ma di indovinare la frase o le argomentazioni che facciano sembrare la fazione che sostiene dalla parte della ragione (da qui la preponderanza degli slogan sui ragionamenti; il carattere frammentato delle discussioni, che non riescono ad avere un vero filo logico; il cadere nel vuoto di temi e particolari che sarebbero invece fondamentali per la formazione e l'informazione dell'opinione pubblica); secondo, molti ospiti urlano; terzo, gli ospiti si interrompono a vicenda e si accavallano.

I primi due problemi sono di difficile soluzione. O meglio: avrebbero entrambi una soluzione molto semplice ma il cui impiego concreto è molto improbabile. Per il primo, un netto miglioramento sarebbe possibile attraverso l'invito, come si fa in molti altri paesi, Stati Uniti tra tutti, di analisti della politica, invece che politici in prima persona. Se nel nostro Paese il tenore dei giornalisti politici (per lo meno in un certo tipo di stampa) lascia a volte a desiderare, esiste un numero elevato di "tecnici", scienziati della politica o di altre scienze umane che lavorano per università, centri studi, think-tank, fondazioni. Riguardo ai politici, è sufficiente una cernita abbastanza superficiale, per riuscire a separare quei politici che possono vantare una rispettabile caratura intellettuale e che sono davvero in grado di forgiare le politiche del proprio partito e capirne le implicazioni da quelli che sono riusciti ad autopromuoversi attraverso sparate estemporanee o da caserma. Per il secondo, è sufficiente abbassare, se non spegnere, nei casi in questione, il microfono dell'ospite. In un primo momento ci sarebbero denunce varie ed eventuali di censura, o di limitazione della libertà di espressione ma non ci vorrà troppo tempo prima che sia chiaro a tutti che è in gioco non la possibilità di esprimere un pensiero, ma il modo in cui questo viene espresso.

Ma è riguardo il terzo problema che voglio lanciare un appello. L'interruzione di un ospite da parte di un altro ospite è una pratica barbara. Qualcosa di incivile che al giorno d'oggi ecc. ecc. In più, oggi è diventata una tecnica di guerriglia. Chi la adotta è a conti fatti una sorta di vietcong. Basta già solo che adotti questa tecnica ed è ovvio che si tratta di una persona che di moderato ha poco; si tratta di qualcuno che rifiuta con spregio l'occasione di dibattito o di dialogo e che la vuole buttare in guerra. In più, schiva con attenzione il campo aperto, e si dà alla macchia, cercando di sfiancare l'avversario con punzecchiature ed interruzioni intermittenti. Tanto, in fondo, non ci perde niente; non ha, ovviamente, le qualità per partecipare al dibattito attraverso modi più convenzionali e, in questo senso, non ha una faccia da perdere. Poi, capita spesso che gli vada anche bene, questo giochino, e che riesca a far perdere il filo a chi sta intervenendo oppure di far passare l'impressione che l'altro sia impreparato (il discorso non riesce a completarlo in modo lineare o, comunque, la linearità non viene percepita da chi ascolta; per un gioco perverso una parte degli ascoltatori può essere portata a credere che le interruzioni siano colpa sua -se il suo discorso filasse come un treno, l'altro non troverebbe gli attimi per infilarsi nell'intervento).

Bene. Qui vogliamo lanciare una campagna per la messa al bando dei "non mi interrompa", "mi faccia finire", "posso finire?" e infine dell'astro nascente "io non l'ho interrotta, però, faccia altrettanto". Sono mosse sbagliate, nella teoria e nella pratica -e inoltre stanno subendo una metamorfosi che le trascina alla deriva. L'errore più evidente sta nel loro effetto pratico. Un ospite che ne faccia ricorso corre seri rischi di passare per spocchioso, se non di peggio. Un abatino, un damerino inamidato. Qualcuno che si sottrae al tipo di dibattito che si sta sviluppando perché non è in grado di parteciparvi (non perché non voglia). Un debole che si tira indietro quando il gioco si fa duro. Far passare una simile immagine di sé va a danno non tanto della propria persona, ma della tesi che si sta sostenendo, che si presume essere valida ed importante per il Paese. E' sbagliata nella teoria perché una simile frase ha senso solamente se riesce ad ottenere l'obiettivo prefissato e in simili situazioni cadrà sempre nel vuoto. Con espressioni del genere, inoltre, si finisce per trasformare quel tipo di educazione, di civiltà, di moderazione in una semplice regola del gioco o peggio in una merce di scambio (io non l'ho fatto, non lo faccia nemmeno lei). E' molto più saggio limitarsi a trattenersi dal cadere a propria volta in questa forma di maleducazione e sopportare quando ci viene rivolta, magari giocando con pause ad effetto nel parlare, quando servono a rendere palese quando l' (altro) re sia nudo. Qualcosa di simile è la strategia, per esempio, della De Gregorio. Si rischia di passare per remissivi, ma a me sembra davvero il male minore.

Per cercare di risolvere il problema, altro appello: conduttori di talk-show adottate una forma di segnaletica in sovraimpressione con del testo che metta in chiaro quando simili forme di interruzione sono esempio di maleducazione e non gradite nel programma, nei casi in cui questo succede.

(altro appello, visto che c'ho preso gusto. In particolare ai registi di quei talk-show che hanno fama di essere più "schierati": basta inquadrare le espressioni degli altri ospiti quando sta parlando un altro invitato, o il presentatore. Inquadrate la persona che sta parlando, o mandate delle immagini che abbiamo a che vedere con quanto viene detto. Vi credete furbi, a beccare una risatina involontaria di un membro del governo ad una vignetta di Vauro. Varie manifestazioni di dissenso o di orticaria quando parla un leghista o qualcuno di sinistra sinistra. Una qualche pantomima di un dipietrista. Beh, proprio per niente.)
In questi giorni, c'è un nuovo tarlo. Potrà sembrare che sia arrivato tardi. Hanno anche già creato una rubrica apposita sul Foglio. In realtà è un problema che mi porto dietro da lungo tempo - da molto prima che turbasse i sonni di molti. Da quando è entrato in SL (ma chi, lui? Non è che vi siete confusi? Noi si doveva andare dall'altra parte, quella dei riformisti seri. Qui siamo contromano); da quando si è deciso di farne il leader (ecco cosa succede, a far entrare cani e porci); da quando hanno aggiunto l'ecologia (e un pace no scusa? Ci starebbe tanto bene. Lo spazio è poco, ma puoi scriverlo in piccolo, o metterlo un po' in diagonale). Da quando le ultime campagne elettorali, intere, sono state buttate al vento per il suo stucchevole personalismo.

Comunque, ho un dubbio. Nichi Vendola? Ma lo dite sul serio, senza scherzare?

giovedì 7 ottobre 2010

Onestà intellettuale a geometria variabile.

Va a finire che guardo un'intera puntata di Annozero (certamente non meno fastidiosa della norma), solo perché Chiara Moroni è una donna bellissima, ed è vestita in modo davvero sexy.

Che porco, che porco.

sabato 25 settembre 2010

Strategie.


Mi chiedo se qualcuno si chieda come tiro avanti in questo periodo. E' una cosa in fondo risaputa che ho bisogno di aggrapparmi ad un certo numero di cose, più di altri; e non è che sia rimasto molto adatto allo scopo ultimamente.

Beh, faccio come ho sempre fatto, solo con maggiore consapevolezza. Coi feticci; sempre avuti, e sempre stato capace di farmene di nuovi. Ora succede anche che alcuni tornino dal passato.

Uno dei crinali di differenziazione più resistente, e più ripido, nel mondo contemporaneo, è quello che separa gruppi di persone con diverso grado di accesso alle reti di comunicazione e informazione. Un certo numero di linee, come isobare, dall'andamento geografico molto più imprevedibile di quanto si possa immaginare. Sufficiente, per lo meno, a rendere estremamente friabili le dicotomie classiche -nord/sud, occidente/resto del mondo. Ho sempre avuto il difetto di ritrovarmi invischiato in luoghi non troppo favorevoli, da questo punto di vista. Giusto oggi ho riacciuffato la possibilità di guardare La7 -già sono tagliato fuori da Sky, vuoi mai che rimanga lontano dal quarto polo, vista la penuria. La conquista maggiore è il ritorno di Lilli Gruber. Lilli Gruber è un grande feticcio, di quelli che valgono per tre o quattro normali. C'era Lilli, con il muro, e pazienza se non ho dell'evento ricordi diretti, anzi, ancora meglio: è come fosse mitologia. Votato Lilli, in una delle primissime occasioni in cui ho avuto modo di farlo: erano le europee, e giusto i mesi in cui stavo abbandonando le posizioni più estremiste, scambiando il radicalismo con il liberalismo, il massimalismo con il riformismo. Giusto il momento in cui mi sono accampato attorno i Ds, prima di passare oltre, verso lo Sdi. Lei e Costa, quella volta. Mi è sempre piaciuta molto anche fisicamente, Lilli: un archetipo così valido delle donne che mi hanno sempre attratto, con la loro forte carica di fascino, ma talmente atipica da non essere per nulla universalmente riconosciuta, e che si manifesta sempre per vie traverse e molto tortuose. E poi è arrivata ad Otto e Mezzo, e anche quello lì era sempre stato un feticcio. La trasmissione, ma anche il suo ideatore -si perde il conto delle occasioni in cui ho trovato le sue posizioni insostenibili, e le argomentazioni a sostenerle ridicole, ma gira gira va sempre a finire che ogni sua iniziativa editoriale merita di essere seguita. Delizioso il suo fiuto per la spalla da scegliersi -anche lì, Luca Sofri, il feticcio dei feticci, ma durante quell'edizione, La7 non avevo modo di vederla.

E' tornata Lilli e anche questa è una cosa a cui aggrapparsi. E no, non desisto solo perché non sei più rossa, e perché per questo nuovo incontro hai invitato Scalfari: resisto anche a questo.

(A proposito di feticci: preso la raccolta di saggi "Cambiare idea" di Zadie Smith. Uno è sull'enorme carisma di Obama, pare; un altro su quanto David Foster Wallace fosse uno scrittore fenomenale. Ecco, qui dei limiti ce li ho: mi sa che non riesci a convincermi in nessuno dei due casi.)

domenica 30 maggio 2010

Cercare in un passero su un ramo lo spunto per la rivoluzione



Certe volte viene da credere che non esista, il libero arbitrio. Perché, se ieri dovevo scegliere tra X ed Y, non è che avessi davvero la possibilità di scegliere Y, se poi si è verificato X. Era impossibile che si verificasse Y e la prova è che effettivamente Y non si è verificato, in quello che per noi comuni mortali (noi che di fisica ne capiamo ben poco, e certo non le cose scoperte dal padre del leader degli Eels) è l'unico universo, l'unica realtà esistente. Per noi che negli universi alternativi, o paralleli, non ci crediamo (ok, è arrivato Lost nel frattempo, ad incasinare le nostre convinzioni). Gli eventi accadono per necessità, determinati da una massa di variabili così estesa ed intricata, che non ci è dato ricostruire, per ora, con i nostri limiti. I segni ci sono, anche se non riusciamo a leggerli.

Per esempio, ce n'erano, di segnali, che gli equilibri dello sviluppo si sarebbero riaggiustati, nel mondo, e che Paesi emergenti sarebbero arrivati a sembrare (ed essere, anche se per il momento solo in parte) attori fondamentali sullo "scacchiere internazionale". Prendete i BRIC, per esempio. Va bene, la definizione non è nata in ambito accademico, ha un uso più che altro giornalistico e sensazionalistico e i tentativi di farla passare per una specie di organizzazione, e non di un gruppo eterogeneo la cui coordinazione e cooperazione è sempre occasionale, eventuale, non istituzionalizzata, è puerile. In più la Russia non è che c'entri molto, con gli altri. Va bene allora, BIC. Ecco, prendiamo i BIC. Che avrebbero avuto un futuro radioso, doveva essere capito almeno dai primi anni '90. Street Fighter: Blanka e Dhalsim i personaggi più interessanti, Chun Li una gnocca pazzesca. Eh, i segnali...

giovedì 27 maggio 2010

Si vive insieme, si muore soli


Il Tg3 della notte non è certo un campione di imparzialità e la loro corrispondente dagli Stati Uniti non può certo vantare particolare brillantezza. Eppure, anche tenendo a mente questo, sono rimasto decisamente spiazzato, qualche sera fa.

La giornalista riportava baldanzosa una dichiarazione del presidente Obama a Napolitano, in visita negli Stati Uniti. In soldoni: l'America ci tiene a conservare un rapporto con l'Europa, ma nel quadro multipolare della relazioni con i Paesi Asiatici, il Brasile, ecc ecc... Posso capire che non le sembrasse vero poter usare finalmente la parola multipolarità con tono propositivo e non polemico nei confronti dell'America (eh, basta farsi un giretto di una decina di minuti su Camilloper farsi un'idea di quanto sia cambiata la politica estera americana), ma non ci si è resi conto neanche per un istante delle ricadute di questa posizione?

Il rapporto transatlantico è logoro ormai da decenni, senza che ci siano stati segnali di recupero importanti (non so quante volte ho sentito citare, nell'ultimo periodo, la battuta di Kissinger sul numero telefonico dell'Europa, ed eravamo con Nixon -uhm, o Ford, ricordate?). Di fatto, un legame stabile tra Europa e Stati Uniti, in cui entrambe le parti riconoscano nell'altro un pilastro fondamentale della propria proiezione internazionale, in cui ci sia una comunanza di intenti e di posizioni (o in cui si sappia trovare una sintesi tra diverse posizioni, in nome di una compattezza giudicata prioritaria al perseguimento dei propri interessi), non esiste più. Ma, almeno nella forma, un certo riguardo reciproco lo si era sempre conservato.

Ora, sembra che anche questa patina di formalità sia venuta meno. Il primo viaggio di stato ufficiale della Clinton in Asia e non in Europa (novità assoluta), tanti piccoli indizi nel corso della crisi, la fantomatica (sì, sì, fantomatica, per un po' possiamo ancora stare tranquilli) Chimerica profetizzata nei giornali. Frasi come quella indicata prima. Non so quanto ci sia da rallegrarsi, di questa nuova piega.

Se non altro, una cosa positiva c'è. Una freccia in più nella faretra di quanti pensano che le inflazionate teorie di Huntington sullo scontro di civiltà fossero, detto fantozzianamente, una boiata pazzesca.


mercoledì 21 aprile 2010

Poi dici che non capiscono: era la pancia quella, non la testa


Non ho mai apprezzato granché il personaggio Mark Twain, e ancor meno lo scrittore. Ma, visto che incappo spesso nell'ultimo periodo in discussioni sul tema, che oggi sul Riformista è stato pubblicato uno stralcio da un suo libro in uscita, e che ricorrere alle citazioni di persone famose è un ottimo modo per esprimere le nostre opinioni, in forma migliore di quanto riusciremmo mai a fare, riporto alcuni estratti. (Anche perché far capire come la penso, riguardo all'opinione pubblica, renderebbe molto più chiaro un post sull'astensionismo, se mai mi deciderò a pubblicarlo).

"...prestiamo più attenzione ad accordare le nostre opinioni con quelle del nostro vicino e a mantenere la sua approvazione, piuttosto che a esaminarle con scrupolo per vedere se siano giuste e fondate. Questa abitudine conduce necessariamente a un altro risultato: l'opinione pubblica che nasce e si alimenta in questo modo non è affatto un'opinione, è semplicemente un'abitudine; non suscita riflessioni, è priva di principi e non merita rispetto" (si noti che il non meritare rispetto non comporta il non meritare attenzione)

"Il cittadino medio non è uno studioso delle dottrine dei partiti, e a ragione: né io né lui saremmo in grado di comprenderle"

"Lo stesso vale per qualsiasi altra grande dottrina politica; perché tutte le grandi dottrine politiche sono piene di problemi difficili -problemi molto al di fuori della portata del cittadino medio"

A queste riflessioni è da collegarsi il fatto che:

- la politica non deve rispondere esclusivamente all'opinione pubblica;
- non è buona politica quella che si pone come unico obiettivo e che riconosce come unico metro della bontà del proprio operato l'aderenza piatta all'opinione pubblica;
- compito della politica è quella di riconoscere le esigenze ed i problemi sociali che stanno alla base delle manifestazioni dell'opinione pubblica e dar loro una risposta all'interno di una più ampia e strutturata cornice ma spesso il modo migliore per farlo non è quello di far propri gli umori dell'opinione pubblica, riguardo a quelle tematiche (riassuntino più chiaro: la politica deve rispondere alle esigenze mosse dall'opinione pubblica, ma non deve -necessariamente-farlo con i toni e le misure invocati da questa. Che poi in questo sta la diversa natura della democrazia indiretta, per quanto molti cerchino di spacciarla per una mera soluzione pratica, "perché non ci stiamo più tutti fisicamente in piazza, a votare per alzata di mano");
- tutta la gloria ottenuta passando attraverso la via più semplice, è ben poca cosa, ed ha poco senso mettere il broncio ed invidiarla (in parecchi hanno scritto cose brillantissime su questo. A me viene in mente un articolo di Polito);
- un partito può adottare una linea d'azione simile solo a patto di avere una propria solidità interna, in termini di strutture e di idee, capace di reggere ai contraccolpi dovuti a questo scollamento dall'opinione pubblica. Tutte le filippiche sulle possibilità di successo di un partito moderno, snello, light, sono favole belle o, per dirla più prosaicamente, fuffa.

A me sono sembrati questi gli argomenti migliori, per spiegare a chi vede, ancora dall'esterno, il fenomeno Lega come un partito che ha saputo ammodernarsi, civilizzarsi, e fare propria una buona linea politica.