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martedì 10 maggio 2011

RT

(Il fatto che sia partito mi dà l’occasione di scrivere questo patetico intervento.)

Quanto non adoriamo, tutti quanti, gli endorsement? La possibilità di dire la nostra un numero infinito di volte, di prendere ancora e ancora posizione su qualunque cosa? La possibilità di far sapere agli altri qualcosa di noi, molte cose, attraverso una singola scelta? (Far sapere agli altri qualcosa di noi è probabilmente ciò che desideriamo di più, in assoluto). Ed è così facile! Ci guardiamo attorno ed ecco che troviamo almeno due o tre nuove occasioni per schierarci. Io adoro gli endorsement. Sono un bel gioco – a costo zero, e capita pure di guadagnarci, di tanto in tanto. Con uno dei miei primi endorsement (Hillary Clinton. Già quattro anni – non ci si crede) ho avuto la possibilità di conoscere una persona e un blog (poi diventati vari blog) che sono ancora oggi l’incontro più piacevole che mi sia capitato in rete. Che sia un gioco – solo un gioco – non ci piove. Perché un endorsement possa essere davvero significativo, è necessaria una di queste due condizioni: che l’endorser abbia un’autorità morale, intellettuale o umana da spendere, in questo appoggio; che abbia un seguito – un pubblico, una platea, un gruppo di conoscenze disposti ad ascoltare questa decisione e ad accoglierla. Perché possa essere efficace, poi, queste due condizioni devono verificarsi contemporaneamente, in una qualche misura. Mancando a me, nello specifico, entrambe tutto resta solo un gioco. Poi nella migliore tradizione del tifo onnipresente, gli endorsement mi vengono spontanei nelle occasioni in cui l’oggetto o la persona appoggiata partecipano ad una sfida. Appoggiare, in questi casi, è una doppia scelta e doppio è anche il piacere che se ne ricava: si sostiene qualcuno nella misura stessa in cui si osteggia l’altro implicato. Per cercare di uscire da questa brutta abitudine, per muovere un primo passo per diventare una persona perbene, per darmi finalmente a un endorsement propositivo, scelgo un’occasione speciale. Questo è un endorsement a favore dell’artista Rodolfo Toé.

Nel farlo, mi trovo ad affrontare in particolare due scrupoli, tra i tanti.

Lo scrupolo n. 1 di questa occasione.

Quali possono essere i parametri di questo giudizio? Attraverso quali linee e schemi esprimere un parere su questa musica? Volendo essere prosaici: ne posso parlare come parlerei di quella di…Mozart e Dylan? Degli esempi più conosciuti della musica alternativa italiana, chessò, Afterhours, Verdena o Brondi? Degli altri gruppi che nella stessa realtà locale cercano di farsi un seguito? Di un concorrente della Corrida? Anche se questa non vuole essere una trattazione esaustiva e nemmeno una recensione secondo i criteri canonici, il problema rimane. La chiave di tutto sta nel chiarire cosa si intenda per artista, e quando qualcuno possa essere definito tale. Che ci piaccia o no, ancora oggi la maggior parte delle discussioni, quando si parla di musica, va a incagliarsi su questo punto. Ognuno ha visioni del mondo, teorie ontologiche ed ideologie culturali da poter chiamare in causa, come armatura alle proprie rocciose convinzioni. Ma non si va molto lontano, con questo approccio. Meglio scendere su un piano più concreto, e muoversi con la semplice intenzione di trovare un criterio, un parametro che ci permetta di separare e precisare, fosse anche con un taglio un po’ rozzo. E qui entrano in ballo questioni linguistiche. La definizione più banale che si possa dare del termine artista è: una persona che, operando in una delle discipline comunemente definite artistiche, compia una serie di azioni atte a produrre un oggetto che abbia finalità individuabili nello stimolare pensieri, riflessioni o sensazioni estetiche. Abbastanza chiaro. Non è nemmeno particolarmente problematico definire quali siano le discipline artistiche: dalla fine dell’Ottocento, con l’affermarsi definitivo di fotografia e cinematografia, il loro elenco è pressoché fisso e universalmente riconosciuto. La famiglia si è allargata con l’introduzione di nuovi campi, spesso crossover di quelli più classici (fumetto, videoclip, installazioni video, ecc.), ma senza subire eccessive trasformazioni.

Non si può però liquidare il problema senza prima considerare un piccolo dettaglio. La lingua è uno strumento e ha la sua funzione nel permettere alle persone di comunicare; con l’evoluzione della lingua scritta, anche quella di trasmettere questa comunicazione del tempo. La lingua ha dei propri codici, certo. I più importanti sono la grammatica e un bagaglio lessicale ereditato. Ma questa codificazione, questa rappresentazione della lingua come un sistema di leggi e di regole, è un risultato a posteriori e non la fondazione di tutto. Un risultato a cui si è giunti per garantire una base di strumenti condivisi per dare maggiore efficacia alla comunicazione e per espandere lo spazio fisico e concettuale in cui questa si può svolgere. Ma alla flessibilità e alla vitalità della comunicazione queste regole rimangono assoggettate. Sono valide fintanto che. Non “sono valide nonostante”. È uno dei motivi per cui le intransigenze giacobine di molti su grammatica e lessico sono puerili e noiose. È il caso per esempio di un noto autore americano (non facciamo nomi).

Bisogna allora riconoscere che oggi, nella maggior parte degli spazi quotidiani di comunicazione, il concetto di artista si è evoluto. E in parte si è distanziato da quello di arte che, ispirando una maggiore sacralità, si evolve con più lentezza e maggiori riserve. Oggi la categoria di artista ha una natura duplice, perché duplice è diventata a sua volta la natura delle discipline in cui questo svolge la propria attività. Al concetto originario si è aggiunto quello di spettacolo, di intrattenimento. Ridicole quindi le pantomime che fanno alcuni sullo sdegnato rifiuto di considerare determinati personaggi come artisti. Vittime più diffuse l’adolescente lasciva americo-canadese di turno, una manciata di band vocali maschili o femminili, spesso interi generi. E lo so bene, come va in queste occasioni. Scenate del genere le facevo io, più di tutti, fino a ieri. Un buon modo per smettere è accorgersi che non si è in nulla diversi dal vecchietto che bofonchia “no l’è miga …(parola da inserire a seconda della circostanza) quea lì”. Viene meno, quindi, la possibilità di appellarsi alla “qualità” come criterio distintivo, in questa nostra situazione.

Riprendiamo. Eravamo alla ricerca di un criterio per poter definire qualcuno un artista. Visto che sta andando per le lunghe, saltiamo qualche passaggio e conveniamo che non lo si può trovare, un criterio sufficientemente condiviso. Che ognuno si costruisca, allora, il suo e cerchi di radunarci attorno un feudo di convertiti. Per quanto mi riguarda, inizio a non sentirmi in colpa, nell’usare il titolo di artista, quando la persona in questione è arrivata al traguardo (una volta oggettivissimo, ora sempre più indefinito) della produzione. Valido, ovviamente, solo per determinate discipline. Musica, letteratura, cinema. Un discriminante molto poco romantico. Ma in fondo sensato. Se la persona in questione riesce a farsi pubblicare un disco, un libro, un cortometraggio, verosimilmente è uscito dalla fase dilettantistica della sua carriera. I suoi lavori hanno conquistato una certa attenzione e, cosa più importante, entrano in quei circuiti tradizionali attraverso cui la musica, la letteratura, il cinema ancora oggi passano (i tempi cambiano, ovviamente, e questo mio criterio ha i mesi contati. Ma non c’è stato ancora un cambiamento così radicale da sconfessarlo). E hanno un loro pubblico; potrà essere meno numeroso di quanto sperato o preventivato, ma esiste. Da questo punto di vista, Rodolfo Toè non è ancora propriamente un artista. È un artista in potenza, non in atto. Però, visto che una volta stabilita la regola, ci si può subito buttare alla ricerca dell’eccezione migliore, questa carta-bonus spendiamola ora. Il ragazzo ha un sacco di attenuanti per meritarsela.

Passiamo al problema successivo (avete mangiato la foglia, vero? Questo post sarà un unico enorme passaggio di problema in problema). Visto che ci siamo esposti nel sostenere il valore vivo e corrente del termine artista, ora ci tocca fare i conti con il fatto che alla maggior parte delle persone sembra assolutamente necessario dare un contenuto, un profilo morale e umano a questa condizione. Sarà che c’è crisi, che la congiuntura attuale è complicata, che il tessuto civile del paese e del mondo va deteriorandosi. Sarà che nella cultura non si investono più fondi, e tutto è in mano al mercato, e ormai si sa soddisfare solamente i gusti più bassi. Sarà tutto questo, ma oggi all’artista si chiede un’abnegazione morale. E l’artista in pectore dal canto suo esige che questa gli sia riconosciuta. L’artista può essere tale solo in quanto artista verticale. Verticale nei suoi contenuti, di volta in volta attenti a scendere, lungo questa direzione, per raggiungere gli abissi o le radici, l’essenza delle emozioni, dell’umanità, della realtà. Oppure a salire, e trascinare i temi di cui parlano –e i lettori, o gli ascoltatori, con essi- verso la redenzione, la salvezza, il paradiso, la perfezione. Toccare il fondo della realtà o elevarla al suo meglio. In entrambi i casi, quello che è richiesto è la profondità. Verticale, anche, nel suo atteggiamento morale. I piedi ben piantati per terra, le gambe tese, la schiena dritta come un filo a piombo, la fronte alta. Per poter essere faro dei popoli; per poter tenere d’occhio il comportamento degli altri, e censirlo. Soffiano forti venti gelidi contro di lui. La corruzione, l’immoralità, l’invidia. Portano con sé badilate di fango. Ma l’artista regge, imperterrito e saldo. È un profeta, o un martire. Al suo apice, un profeta martire. La libertà potrà anche essere partecipazione, ma i suoi sacerdoti sono queste integerrime figure solitarie. Il meglio che possiamo fare è porgere loro la frusta, e ascoltarle.

Visti tutti i danni che questa tendenza ha fatto, sarebbe forse il caso di iniziare a contrapporle con più insistenza la figura dell’artista orizzontale. Orizzontale nelle sue intenzioni intellettuali: qualcuno di voi ha forse mai trovato della profondità in un racconto di Carver? Immagino di no, visto che lì non ce n’è, di profondità. Ho notato che l’incisione Melencolia I di Dürer ha un numero di fan e ammiratori assolutamente superiore a quanto immaginabile. Nelle ultime settimane si è guadagnata almeno due articoli sulla stampa internazionale. E sono certo che non sia merito della sua simbologia o perché venga presa per l’impersonificazione stessa del sentimento. È per il riconoscimento: ne guardiamo il volto, analizziamo la postura del corpo, ci concentriamo su quell’unica macchia che è lo sguardo e riconosciamo quell’ombra e quelle forze. Sappiamo cosa significano. Qui sta il punto. L’arte, nei momenti migliori impressi su pagina o su tela, riprodotti su schermi o diffusi nell’aria, non è profonda. È orizzontale. Non fornisce spiegazioni del mondo, perché non c’è nessuna spiegazione possibile per qualcosa di così grande, vario e complesso; se anche esistesse non avrebbe una vita più lunga di quella di una farfalla. Non indica la strada per la redenzione: lo sanno tutti che la cosa migliore è strappare qualche piacere in questo purgatorio. Quello che fa è assorbire, riproporre e diffondere l’umanità presente nella realtà. Creare ancora, e ancora, empatia. E questo è uno dei motivi fondamentali per cui ognuno di noi, oggi, ha letto libri, ascoltato musica, guardato film più di chi sia vissuto nelle epoche precedenti; questa è la ragione, più ancora della relativa economicità odierna dell’arte, o del progresso tecnologico. Abbiamo un bisogno disperato di provare empatia –e di poter confermare a noi stessi di essere capaci di provarla. Di sentirci raccontare, e di vederci presentare le prove, che l’umanità esiste ancora. Se lo straniamento della vita moderna esiste, e non è solo una favola, questo bisogno urgente che ci coglie è il suo risultato più evidente. Un altro bisogno a cui quest’arte orizzontale risponde va oltre la testimonianza della sopravvivenza dell’umanità, e della possibilità di provare empatia per persone simili a noi. Messi di fronte a questa umanità eterogenea, abbiamo bisogno di venire a capo delle diversità esistenti. Di capire chi è diverso da noi, negli atteggiamenti, nelle credenze, nelle aspirazioni. In pensieri, parole, opere ed omissioni. Nella vita reale questo ci riesce solo a tratti, con discontinuità, con un numero limitato di persone. L’arte aiuta a coprire questi buchi – in essa troviamo la stessa varietà presente nel mondo, ma tenuta ferma e svelata. Continuando con il parallelo, questa orizzontalità è anche morale e umana, oltre che intellettuale. Ripensate per un attimo ai vostri artisti preferiti. Agli scrittori che avete amato di più. Ai musicisti che riescono a toccarvi certe corde. Che bella fiera, ne viene fuori. Alcolizzati, a metà o per intero. Fedifraghi impenitenti. Esperienze di droga non mancano di certo. Gente che si è barcamenata e ha tirato avanti con mezzucci vari. Certo, a meno che il vostro scrittore preferito non sia Terzani, ma voglio sperare non sia questo il caso. Anche chi poteva vantare virtù più salde si è ben guardato dal farsi censore e moralizzatore. Consci di quanto la verità, la giustizia, il bene non si possano trovare menando l’accetta per aria; di quanto la fallibilità, l’esposizione a mille e più contaminazioni e traversie, la tendenza a farsi catturare dalle passioni più piccole e degradanti faccia parte della natura umana, della natura di ogni uomo, hanno preferito lasciare ad altri il compito di censurare, alzarsi su un pulpito in pubblica piazza e sbraitare e inveire. Di Robespierre e Savonarola pronti a cogliere questa missione ce n’erano fin troppi, in giro. Hanno evitato, ogni volta che fosse loro possibile, di farsi tirare per la giacchetta, e doversi alzare (ben saldi, verticali, schiena dritta e fronte alta) e indignarsi. Capaci di capire le situazioni e le attenuanti, hanno perdonato – e l’hanno fatto senza tutto il cerimoniale con cui lo fanno i cattolici. Con i grandi ideali ci sono andati piano, li hanno guardati con diffidenza, con occhiate oblique, c’hanno giocato un po’, trovandoli patetici e posticci come una boccia di neve. Una boccia di neve del Cairo, snow in the Sahara. Non hanno mai messo su qualche barricata, per difendere una libertà, o pensato di buttare giù tutto, per fare strada a un ipotetico nuovo. La libertà che avevano in mente non richiedeva gesti così clamorosi, era al massimo la libertà per tutti di sognare e far l’amore (cit.). Con questo loro approccio sono sopravvissuti meglio. Potremmo citare quel pezzo che c’è in ogni antologia delle medie, Deledda, credo: nella tempesta, meglio la flessibilità della canna alla solidità della quercia.

Simili figure di artista non sono state certo rare. Figure altissime e significative. Ma, nel suo piccolo, nella scena locale in cui cerca di affermarsi Rodolfo Toè è un validissimo esempio di questo prototipo di artista, che al momento non sembra godere di buona salute. Non c’è saggezza nelle sue canzoni, tranne forse in “Per una casa verde”. E anche lì. È una saggezza davvero poco ambiziosa. Indirizzata a poche persone, a chi è stato a sua volta testimone delle condizioni che a questa rivelazione hanno fatto da premessa. Passeggera e fugace, destinata a tornare buona giusto per qualche momento. E inevitabilmente rivolta al passato e di poca utilità per il futuro. Eppure è solo questo che è possibile, e niente di più. Non si può ambire ad una saggezza superiore, perché una saggezza superiore non esiste. Per il resto, nelle sue canzoni non potrete trovare altro che qualche atmosfera (andiamo tutti così pazzi per le atmosfere. Se potessimo, non faremmo altro tutto il giorno che passare da un’atmosfera all’altra.), delle suggestioni. Qualche sentimento, qualche sensazione. Un certo numero di esperienze, una manciata di personaggi. Gente con cui vi troverete subito in sintonia perché non è in fondo diversa da voi. Gente che vi suonerà straniera, ma verrete in qualche modo presi per mano e aiutati a capirla. Un paio di occasioni per farsi una risata, o sfoggiare un sorriso. In fondo è questa, l’orizzontalità di cui parlavo. E niente soloni, niente omelie. I grandi valori assenti, barattati per un po’ di tranquillità. Nei suoi momenti migliori, Rodolfo Toè è un cialtrone.

Lo scrupolo n.2 di questa occasione.

Dopo aver cercato di spiegare quali siano i parametri di questo giudizio, un’altra questione spinosa. Può avere un qualche valore un giudizio mio? Immagino che più d’uno sarà portato a dubitare di quanto possano essere affidabili le mie parole. Alla fin fine, sono una parte in causa. L’artista è un caro amico –figurarsi se posso analizzarne i lavori con un sufficiente grado di obiettività. Potremmo metterci a discutere di quali siano gli elementi fondanti dell’oggettività. Potremmo spingerci anche oltre, indagarne la natura stessa, mettere in dubbio perfino che possa esistere qualcosa del genere. Risparmiamoci la fatica. Facciamo che, se volete concedermi tanto credito, vi assicuro che non c’è nemmeno una parola in malafede, in questo intervento. E neppure una eccessivamente parziale. Questo perché mi è sempre riuscito di essere, rispetto a Rodolfo e alla sua musica, contemporaneamente, uno dei suoi più grandi fan e uno dei suoi più duri critici (se non considerate i critici con la bava alla bocca). Bisognerebbe mettersi d’accordo sul senso di quel “grande” (che razza di post, eh? Mai che si possa prendere una parola per buona, senza doverne conquistare il senso a forza di puntualizzazioni e chiarimenti). Di sicuro non importante (va da sé) e nemmeno utile. Immagino che l’interessato negherebbe, se interrogato a proposito, ma sarebbe una semplice cortesia. Non sono un solido abruzzese, capace di mettere in piedi una sala d’incisione casalinga, reinventarsi tecnico del suono, saltare a piè pari, quando necessario, mezza Europa per dare il proprio contributo. Non sono un personaggio disgraziatamente incline a farsi fregare dalle filosofie spicce sul mangiare e sul coltivare lentamente, ma rapido come una scheggia quando si tratta di inventare una trovata o un arrangiamento. Non sono qualcuno capace di farsi perdonare angherie e violenze giusto per il rotto della cuffia, mettendo una voce così che tocca determinate corde, in quel modo lì, che fa risuonare il testo con quella forza. Non sono uno di quegli spettatori tanto assidui da meritarsi una medaglia per ogni presenza, come fossero scout, e che possono consolarsi con il titolo di spalla buona per ogni occasione e di mascotte ufficiale. Con me niente adorabili chiome rosse tra le prime file giù dal palco. E vi posso assicurare che le mie gambe non farebbero una bella figura, in calze scure. La mia limitata rete di conoscenze sociali non prevede nemmeno qualcuno che possa fare le mie veci, in questo. Lo avrete capito, l’apporto che posso dare, dopo tutti questi depennamenti, non riuscirebbe mai e poi mai ad essere mai davvero utile. Le mie presenze ai concerti sono tutto sommato rare. Certo, la scusante del trasporto. Evitarla non è semplice: poche cose, al mondo, sono mortificanti come andare a un concerto quando è l’artista stesso a dovervi passare a prendere. Delle volte si fa spallucce, perché perdere l’occasione è un peccato ancora più grande, ma un minimo di decenza va conservata. Ho contribuito a preparare qualche scaletta ma sfatiamo un mito: le scalette non sono davvero qualcosa di così importante. Gli artisti perdono spesso il senso della misura, su questo, a volte per scaramanzia, credo. Ho avuto un ruolo nella modifica di un paio di versi, in modo diretto o indiretto. In un caso questo ha portato alla sostituzione di una frase davvero troppo banale con una più sensata, capace, all’interno della canzone, di guadagnarsi uno spessore particolare. Ma niente di più.

Svolgimento.

Dice che “Trieste” è, in un certo senso, la canzone che ha avuto più successo. Che si è conquistata un pubblico e un apprezzamento più esteso, al di fuori del solito giro. Non mi sorprende. “Trieste”, all’interno della sua musica, fa parte della categoria “canzone-empatia”, così come “Abitudini” e “Figuranti”, giusto per fare un paio di esempi. Empatia, in questo caso, intesa non nel senso largamente positivo richiamato prima; un tipo di empatia meno vibrante, più semplice e di maniera (a patto di non dare a questa connotazione un tono eccessivamente negativo) e per questo capace di arrivare forte e chiaro a un numero maggiore di persone, anche quelle che non sarebbero disposte a investire una maggiore attenzione e partecipazione per cogliere un tipo di empatia più complesso.

Intermezzo n.1

Un particolare davvero divertente della produzione artistica di Rodolfo è la possibilità di raccogliere le canzoni in una serie di categorie con denominazioni buffe. Questo è vero, in piccola parte, per quasi tutti gli artisti, ma in questo caso riesce più facile. Le canzoni-empatia, già detto. Poi ci sono le canzoni-artistiche, in cui il valore letterario del testo acquista una centralità soverchiante, ed è forse il vero obiettivo dell’intera canzone. “Hansel”, “Ottobre”, “L’Orchesta del Titanic”. Le canzoni-goliardata, utili a rompere il ghiaccio o alleggerire delle tensioni nei concerti, che hanno gioco facile a far divertire la maggior parte degli spettatori, ma che vanno al di là di questa dimensione, hanno un senso e una serietà, sotto la patina di ironia, che se ne stanno tranquille, e si svelano, qualche momento dopo, a cui voglia coglierle. “Il Novanta per Cento”, la “Bourbonnaise”, “Precaria”, “La libertà. Senza tante menate”. Le canzoni d’amore atipiche. Le canzoni a doppio strato che riescono a parlare ad ogni ascoltatore ma nascondono, alla luce del loro legame con esperienze personali, un senso più intimo e profondo percepibile solo a una piccola cerchia di persone. Le canzoni-tenui. Garbate, intime. “Ci sono persone”, “Canzone misogina n.2”, “Orfei”. Certo, rimangono le canzoni difficili da inquadrare (“Silvia”) e quelle che appartengono a più di una categoria.

Dicevamo, del successo di “Trieste”. Sarebbe sciocco lamentarsi di quanto sia ingiusto che questa sorte sia capitata a “Trieste” e non a canzoni migliori.

Ah-ehm, Intermezzo n. 2 (scusate l’interruzione).

Le mie tre canzoni preferite, in ordine, di Rodolfo Toè, dovesse interessarvi:

1) “Hansel. La maturità”

2) “Ottobre”

3) “Silvia”

Una menzione particolare per “Avevo” e “Il Baluardo”, che non sono riuscite ad entrare in classifica.

Sarebbe sciocco perché lo sanno tutti, che va così. Le canzoni più conosciute non sono quasi mai le migliori, di un artista. Sarebbe sciocco, perché “Trieste” è comunque un’ottima canzone.

Daje, de novo. Intermezzo n.3

Le tre canzoni che apprezzo di meno, nel suo repertorio:

1) “I Preti”

2) “Barbera”

3) “I Papaveri”.

Dicevamo, è un’ottima canzone. Musicalmente decisamente valida, con un piacevole leit motiv che ti accompagna lungo tutta la canzone, attraverso le diverse emozioni che traspaiono nei diversi momenti del cantato. Una linea di continuità e di coerenza. La linea del sentimento, se vogliamo fare gli enfatici, che si conserva e si difende dalle condizioni del momento, dalle diverse emotività quotidiane. Il filo conduttore che ha l’accortezza di sistemarsi quando necessario sullo sfondo e lasciare lo spazio ai suoni elettrici e distorti. Un arrangiamento decisamente efficace, come d’abitudine, nel mettere in risalto le qualità musicali del pezzo. Il risultato è l’ormai classica capacità di suonare familiare e rassicurante, alla luce delle molte influenze di cui è debitore, senza però rimandare a un’unica assonanza precisa, evitando così la critica di un difetto di originalità (in questa canzone, nello specifico, c’è qualcosa degli Offlaga Disco Pax). Forse, l’unica pecca dal punto di vista musicale è l’assenza di un “momento concentrato di coinvolgimento estetico”, l’elemento più caratteristico della musica di Rodolfo, più dei validi arrangiamenti o delle melodie piacevoli. Una sua qualità è quella di sfornare sottofondi musicali in profonda sintonia con le atmosfere ricreate dal testo. Chiunque abbia un discreto bagaglio di conoscenza musicale sa che questo, purtroppo, non è così diffuso come sarebbe lecito aspettarsi. E, visto che è normale pensare che una capacità del genere vada collegata a un certo livello di esperienza “artigianale” e di maturità esistenziale, va sicuramente riconosciuto il merito, all’artista, di saperla manifestare già in una fase così precoce della sua carriera. Ma in cosa consiste, di preciso, il tocco di cui parlavo prima? In più di una sua canzone sono presenti dei singoli momenti, brevi (dieci, quindici, venti secondi), completamente coinvolgenti, capaci di donare un appagamento estetico, di catturare totalmente l’attenzione dell’ascoltatore e immergerlo con forza nel pathos del pezzo. Se non avevi ancora capito di cosa parlasse davvero la canzone, ora hai avuto un’illuminazione. Se già ne avevi capito il senso, ora hai superato quel livello, ora lo vivi. È come toccare il nocciolo della canzone, il suo cuore pulsante, e quasi il testo e il resto della musica non aggiungono altro.

Intermezzo n.4

Per quanto mi riguarda, l’esempio più lampante di questa “esperienza estetica” si trova in “Silvia” (e spiace non citare quello di “Ottobre”). Tra l’1:06 e l’1:16. Undici secondi, annunciati da tre armonici. La melodia è presente anche in altri momenti della canzone, ma in questa parte sfrutta appieno le sue potenzialità. È un ballo, come confermato dal verso subito successivo. Un ballo classico, ma con le sonorità dolciastre del folk. Le corde, garbate, vi accompagnano nei giri che dovete essere in grado di far fare alla vostra partner. Una concessione davvero generosa, a voi che non siete mai stati particolarmente dotati, nel far ballare una donna. Avete tra le mani Silvia, afferrata ora per le dita, ora per un fianco, ora per una porzione di schiena, e la guardate con gli occhi del narratore. È così bella, e desiderabile, Silvia. Farla volteggiare per la stanza è un vero piacere, e lei lo sa. Ma lo sa nel modo sbagliato. Per lei è il piacere standard che prova l’uomo a far ballare una donna. Vi guarda in quel punto tra mento e spalla e vi concede un sorriso accennato non troppo intelligente. Perché non è un sorriso per voi, in quel momento, nella sala in cui vi trovate, accompagnati da quella canzone. Momento, sala, canzone, uomo sono solo dettagli da inserire negli spazi standard di un modulo prestampato. Mettervi una firma rende creditori di una prestazione. Giravolte per cinque minuti accompagnate da un sorriso che abbia almeno l’angolazione minima richiesta x e la durata y. Prima che la band canti tre ultime canzoni, lei vi avrà rinnegato con tre nuovi cavalieri, dicendosi di non conoscervi. Durante il ballo i vostri sguardi non riescono mai ad incontrarsi. Il suo, assente, starà attento a posarsi su punti poco impegnativi; il vostro si caricherà di risentimento, perché il senso che volevate imprimere in queste tre mosse stupide a cui vi siete costretti non è stato riconosciuto.

Tutto questo non sta (tanto) nelle parole del testo. È in quegli undici secondi.

Riprendiamo di nuovo le fila. Dicevamo? “Trieste” è una bella canzone (ma guarda che caso, quante volte l’ho già ripetuto?). Certo, manca l’impronta più caratteristica, il momento migliore, della musica dell’artista. Il testo conquista nella misura in cui può essere preso nella sua accezione più banale. Perché quindi non è un male il successo di questa canzone? Perché ci sono tre versi, nel testo, che sono un esempio chiarissimo del talento dell’artista, e la pubblicità migliore al dono più importante che possa farvi: l’empatia orizzontale a cui accennavamo prima. E rendono chiaro un punto: nonostante la sua formazione, le sue prime esperienze e, credo, le sue aspirazioni, Rodolfo Toè non è un poeta, nelle sue canzoni. È un narratore, ed è in questo campo che raggiunge livelli davvero significativi.

“Se non altro ci promettiamo che troveremo un modo”. Chiunque abbia mai vissuto un rapporto a distanza sa che questa, immancabilmente, è la frase con cui ci si accomiata. Trovare un modo è un’espressione dalla genericità opprimente. Rimane aperta all’imprevedibilità del vivere, flessibile e duttile agli spazi che le diverse situazioni le permettono di occupare. Rimane talmente vaga da lasciare intendere che quel modo non sia poi più afferrabile di una cometa, più verosimile di una chimera: lascia aperta l’eventualità che quel modo sia la consolante bandiera dell’impossibilità, e della mancanza di colpa, da poter sventolare in faccia alla sconfitta. “Troveremo un modo” è il mantra che si ripetono gli amanti, concedendosi in questo rosario un tono sempre diverso. Lo si può recitare fitto fitto, ripetuto molte volte di fila, velocemente, senza soffermarsi su nessuna parola. È un esorcismo contro la paura. Lo si può pronunciare nel modo opposto, una volta sola, inesorabile, ogni parola ben messa in risalto, le prime lettere con una certa forza ed il resto della parola che scorre in una dolcezza crescente. Nel farlo, la cosa migliore è afferrare una ciocca di capelli della ragazza, lisciarsela tra le dita, e rimetterla al suo posto, ordinata dietro il lembo dell’orecchio. È la frase ad effetto dell’eroe, tutto andrà a posto, tutto sarà riportato nel suo giusto ordine, fidati. Lo si può ripetere a turno, uno sulla faccia dell’altro, sputato nell’enorme sorriso con cui veniamo ricambiati. Qui, di nuovo veloci e con una risata un filo troppo squillante, un filo troppo vacua. Non ci sono paure e non c’è nemmeno bisogno di ordine o di eroismi. I timori riposano sotto i tappeti. Nei casi più complicati, è un’arma che può imbracciare chi, dei due, si trova dalla parte dei buoni. A voler essere sgradevoli, lo si trova sempre, il vero colpevole. Chi se ne va più lontano, chi se ne va per più tempo, chi prende una strada che rende meno compatibili i giorni a venire. Questa frase viene brandita con decisione, sbottando. Discorso chiuso, sarà quel che sarà, cerchiamo di appenderci a questo modo. Va da sé che trovarlo spetta principalmente all’altro. È lui quello nel torto.

“E se non altro potremo esibire la felicità di mancarci ogni giorno”. Anche in questo caso, probabilmente sapete di che si tratta. Parlavo di esorcismo, prima. Questo, quando è successo, quando si è separati, è l’esorcismo più grande. Ripetersi sempre quanto ci si è mancati, nel tempo passato dall’ultima volta che ci si è sentiti. Confermarsi a vicenda, lisciando ognuno il senso di mancanza dell’altro, che ha ancora un senso, che ce la si può fare. La mossa migliore è buttare lì, ma senza enfasi, infilandoli qui e lì nel discorso, dei piccoli esempi di situazioni particolari. Non troppo romantici (subentrerebbero il rimpianto e la malinconia). Qualcosa dotato di un suo piccolo fascino sghembo. Qualcosa di indie. E il giorno dopo, mentre siete in giro per le vostre città diverse, raccoglietene di nuovo altre, di queste situazioni, come foglie da infilare tra i libri, e far seccare finché arriva il momento buono. Finché è il momento di ripetere questa recita a due. Celebrare la felicità del mancarsi, fingere di trovare il piacere nel dolore. Come continuare a schiacciare un ematoma con la punta delle dita, mentre questo nei giorni assume sfumature diverse.

“…per quando saremo normali, per quando saremo due estranei”. (censuriamo la parte sugli aborti spontanei. Anch’io, che ho una sfilza di indizi sull’assoluta buona fede, non riesco a non considerarlo un passaggio ruffiano e di maniera.) Riassunto, in due righe, il problema con cui molti devono fare i conti, nei loro rapporti personali. L’unico modo, per far sì che una relazione continui, è rimanere estranei. È questa, la normalità, e se molti si ritrovano da soli, possono maledire la propria incapacità di accettare questa estraneità. Il loro desiderare ed aspirare ad altro, di più, per poi ritrovarsi con niente. Sono capaci di uscirsene con un “Quella coppia, diavolo, non so come facciano. Sembra che non conoscano niente uno dell’altro! E stanno insieme da quarant’anni”. Detto come se fosse un ossimoro. Non riescono ad arrendersi al fatto che la strategia migliore sia quella di collezionare un certo numero di estraneità diverse, conservarle tali, senza mai superare il segno, incastonarle in un quadro armonioso. Una rete di persone che vivono insieme e non sanno nulla l’una dell’altra. È ancora qualcosa che non riescono ad accettare. Nel frattempo, si ritrovano soli.

La forza di questi tre versi è amplificata dal modo in cui vengono urlati. L’artista ha parlato del senso di liberazione provata, durante la loro registrazione. Sarà, ma l’impatto che rendono è (fortunatamente) tutt’altro. L’urlo più trattenuto, impostato, che si possa immaginare. Non l’urlo liberatorio, l’urlo dei nervi che cedono. Il massimo dell’urlo che una persona normale possa quotidianamente concedersi, circondata com’è da altre persone, obbligata com’è a dedicarsi alle attività necessarie.

Una curiosità che vale la pena notare: la strofa si fonda tutta sul “e se non altro”. Pensandoci un attimo, è l’esatto opposto del “ma anche”, dell’idea che la realtà sia bella e varia, ma che possa essere tenuta insieme, che le grandi tradizioni abbiano ancora da dare qualcosa all’uomo e che possano perfino convivere, che sia tutto un bel banchetto imbastito e ci si possa servire a piacere. Prendere le cose migliori e metterle insieme. Nel “se non altro” le tinte sono l’opposto. Quel poco di buono che si può ricavare è frammentato, ce lo si deve godere per quello che è, quando capita, finché dura. Non lo si ottiene allungando la mano e prendendolo semplicemente, lo si deve conquistare, strappandolo a quanto di doloroso vi si ritrova attaccato. Lo si conquista, soprattutto, a forza delle cecità che ci imponiamo.

Il rammarico da confessare.

Tra tutte le critiche che ho rivolto, in vari momenti, alla musica di questo artista, una è stata particolarmente ingiusta. Fatta in buona fede, si intende, ma eccessiva e in un certo senso sbagliata. Non in quello che è il suo senso oggettivo. Da questo punto di vista rimane fondata: prendete 8 o 10 o 12 canzoni. Mettetele insieme. Per quanto la vostra scelta sia ponderata e attenta, il risultato che ne ricaverete non sarà mai qualcosa di omogeneo. Questo presunto album che vi siete costruiti è una raccolta di belle canzoni, che vi piace ascoltare, ma non ha una coerenza interna sufficiente a qualificarlo come un vero e proprio album, come un’opera incarnante idee e stili coerenti. Ma, nel formulare questa critica, nella mia testa, la mancanza di organicità era da intendersi anche come mancanza di una vera poetica. Come se quelle canzoni potessero benissimo appartenere ad una pluralità di artisti e la comune paternità non fosse automaticamente riconoscibile. In questo ho completamente sbagliato e ho impiegato molto tempo, ad accorgermene. Una poetica toeiana esiste, è forte, coerente, ispirata e la si può notare con maggiore evidenza nella canzone “Novembre, gli ultimi giorni prima del diluvio”. So cosa pensate: che bel giochino scemo e divertente, voler cercare i tratti più significativi della produzione di un artista in una sua canzone tutto sommato secondaria. Ma in questa canzone gli ingredienti della sua musica sono messi più in evidenza, e palesi all’orecchio di chi si dedichi all’ascolto con una certa attenzione. Rodolfo Toè inserisce, nei propri testi, parole-totem, pesanti ed ingombranti: Dio, morte, dolore, noia, maturità, ovviamente amore. Ma le sgonfia e le desacralizza: Dio è un povero cristo (gioco di parole involontario), di cui l’uomo può benissimo fare a meno, anche perché, quando si presenta, combina disastri come se si trattasse di un gioco per sfuggire alla noia. Il dolore non è poi tutta questa gran cosa: è una condizione a cui ci si può abituare senza troppi sforzi. L’amore è un incastro di trucchetti e scaramucce, molto raramente qualcosa di più di una collezione di cazzate. Questo doppio movimento (elevare la propria musica tirando in ballo grandi temi; affossare i grandi temi inserendoli nella propria musica), che si riduce nella pratica ad uno sgonfiamento, è gestito attraverso una tattica linguistica che ci si aspetterebbe produrre un risultato contrario: la citazione e il riferimento a mitologie, grandi narrazioni, la Bibbia. La canzone contiene inoltre il più importante manifesto programmatico dell’autore (molto più di quanto non faccia “La libertà. Senza tante menate”): “oggi smetteremo di credere, di rifletterci nelle persone”. Non è una musica per la gente, questa. E d’altronde chi l’hai mai vista, questa “gente”? Chi c’ha mai avuto a che fare? Chi vorrebbe averci a che fare? Senza voler essere enfatici, credo di poter dire che Rodolfo e io siamo sempre stati capaci di riconoscere il pensiero dell’altro. Di concedergli sempre il pregio, o almeno la scusante, della buonafede. Di accettare l’incombenza di prendersi un momento per sondare le ragioni di determinate prese di posizione dell’altro, di indagare tutte le premesse che ne facevano da genesi. In tutto questo però finiamo, molto spesso, per trovarci su convinzioni e idee molto lontane, a volte difficilmente compatibili. Se c’è qualcosa che ci ha sempre accomunato, questa è l’allergia, a volte posata, a volte viscerale, per l’umanità, la società, l’universalità, soprattutto quando sono tirate in ballo come categorie esplicative. Cercando di ricalcare, un po’ goffi, i passi di tanti venerati maestri, ci siamo riproposti di riconoscere la dimensione privata della Storia e dei suoi fenomeni. Di guardare alla persona, di fuggire dai plurali. Sempre convinti che gli elementi del reale si qualificassero e si potessero capire sulla base di ciò che li rendeva unici, che li differenziava da tutto quello che li circondava. Immagino che alcuni tra i suoi ultimi post abbiano spiazzato parecchi, e li abbiano anche fatti indignare, magari. Sono convinto che la ragione sia questa “filosofia di fondo” dell’autore; le persone che si sono scandalizzate, con ogni probabilità, hanno preso per politico ciò che invece era, a ragion veduta, esistenziale.

“Novembre” è significativa anche nel chiarire una volta per tutte le influenze musicali dell’artista. E qui bisogna riconoscere che Rodolfo Toè ha compiuto la truffa del secolo, vi ha fregato tutti. Vi siete persi a puntualizzare come “Il Novanta per Cento” sia una roba tirata fuori da Guccini, niente di più che una macchietta de “L’Avvelenata”. Magari avete osservato (giustamente –in fondo questa è un’idea mia, e mi permetto di mettervela in bocca) come “Avevo” sia il lato oscuro di “Buonanotte, fiorellino”: la stessa nenia cullante (nonostante le distorsioni) da cui sia stata tolta ogni traccia di dolce e che abbia da offrirci l’agro rimasto. Vi siete ripetuti come il modo in cui i primi due-tre versi di “Hansel” sono cantati ricorda proprio De Andrè, e del resto anche le atmosfere della canzone hanno qualcosa di suo. Beh, fregati. Leggere le canzoni di Rodolfo attraverso la lente del cantautorato italiano è stupido oltre ogni limite. E a ricordarvelo è la chitarra di “Novembre”, con tutte le suggestioni, musicali e letterarie, che si porta dietro. Una chitarra essenzialmente rurale. Ma che non ha nulla a che vedere con la ruralità nella musica italiana, che è sempre, immancabilmente, una ruralità ideologica, macchiettistica, la celebrazione della “vittoria nonostante tutto, nonostante ogni apparenza”, della vittoria morale. La narrativa toeiana è quella dei “perdenti nonostante tutto”. E se scomodare Johnny Cash sarebbe ridicolo (non tanto per distanze qualitative, quanto per impossibilità oggettive), è nel solco da lui creato che bisogna cercare i numi tutelari della musica che state ascoltando, le pietre di paragone con cui poter inquadrare e capire. La musica di Toè è vicina ed è parente di quella di Warren Zevon, di Ry Cooder, dei gruppi alt-country più recenti, primi tra tutti “The Mountain Goats”.

Infine, “Novembre” è importante per una parola, la vera chiave di volta della poetica dell’autore. Dove per alcuni c’era il “fanciullino”, o “l’ideale dell’ostrica”, per Rodolfo Toè ci sono gli anfibi. I personaggi si ritrovano a vivere in un limbo incastrato tra dell’acqua stagnante, uno strato abbondante di fango, un incipit di terra. Sono sconfitti, guardati con un po’ disgusto, rimasti ad uno stadio larvale dell’evoluzione. Nonostante siano stati loro, spesso, a permettere l’inizio di tutto. Riescono a sopravvivere solo accettando la propria condizione, imparando che i cambiamenti che possono arrivare sfoceranno inevitabilmente nel peggio, anticipandoli con mutazioni che sappiano metterli al riparo. Mettono su nuovi sistemi respiratori che li tengano in piedi nel nuovo ambiente. Si tengono ben strette addosso le branchie, guardate da tutti come un anacronismo ridicolo, sicuri che torneranno loro utili, in futuro. Nel futuro in cui potranno gustarsi l’unica risata per loro possibile, quella accompagnata da qualche goffa sguazzata, mentre i grandi annegano.

Quindi, per finire: sapete forse indicarmi qualcuno, nella musica indipendente italiana, che possa vantare, fin dall’inizio della sua carriera, tante frecce al suo arco? Immagino di no, ed allora: RT, ritwittate, andate e ditelo alle montagne.

P.s.: se non dovesse avervi convinto tutto quello elencato sopra, vi lascio con un ultimo aneddoto-simpatia. Al momento Rodolfo Toè è la più grande fabbrica vivente e operativa, al mondo, di epitaffi. Se, per me, non avessi già definitivamente scelto (questa è una comunicazione ufficiale. Chi di dovere se lo segni, e provveda, quando sarà il caso.) il borioso “Avrebbe potuto, se avesse voluto. Ma non gli è sembrato il caso di volere” allora prenderei seriamente in considerazione:

  • il poetico “Non serve rimanere, così a mezz’asta, tramontare come alle sere”;
  • il sarcastico (e leggermente modificato) “Noterete la mia assenza?”;
  • il monito “Non riesco ad immaginarmi un futuro migliore”;
  • l’assolutorio (e leggermente modificato) “Si è portato dentro il suo verme da vero signore”;
  • l’atto di cortesia per i vermi (leggermente modificato) “Nel mio petto voglio il timo”;
  • l’altezzoso (o sincero?) “Non c’è nulla che io ami, non c’è niente che mi piaccia.”;
  • il divertente “Mi han detto di stare qui ed aspettare”;
  • il riassuntivo “Una vita inquieta e silenziosa”;
  • l’auto-assolutorio “Non imploro perdono per le impronte lasciate”;
  • il riconoscente “Grazie per questa mia, ed è anche troppa, importanza”;
  • il franco “E più della memoria ora è paura. E la tristezza come per qualcosa che pian piano si perde”.

giovedì 28 aprile 2011

Macchie della storia

Chinaglia si è ben guardato dal giocare nel Frosinone, ma non si è fatto problemi a finire nei New York Cosmos.

mercoledì 27 aprile 2011

Necrologi e arringhe.

Ormai ci sono più parole di Zadie Smith che mie, qui. Ma questa volta è per avvisare che ho raggiunto il livello ultimo di ossessione per un autore. Non ci sarebbe bisogno di ricordare che questo livello non può, giocoforza, essere oggettivo. Non è quindi quando compri l'ultimo libro mancante, e hai tutto quello che è stato pubblicato in italiano di suo. Non è quando hai letto tutto quello che è stato ecc. ecc. (anche perché a me manca qualche centinaio di pagine, per arrivarci). Non è nemmeno quando inizi a prendere in seria considerazione di procurarti, di qualche opera, la versione in lingua originale per scoprire com'è veramente, originariamente, quel passo che hai tanto amato, per il tuo piacere personale (soprattutto se sei in attesa che esca qualcosa di nuovo) e per un'idea sgangherata di rispetto per l'autore.

E' quindi qualcosa di soggettivo. Ma anche qui ci sono parecchi gradi. Non è quando scopri che in quella frase o in quel passaggio l'autore/trice ha espresso esattamente quello che pensi tu, riguardo l'argomento in questione, in un modo così chiaro e preciso che a te non sarebbe mai riuscito (non si può dire più correttamente di così, cit.). O quando addirittura lo dice con le parole che useresti tu (che credi useresti tu). E non cambia niente quando in questo giochino raggiungi i cento punti. Non è nemmeno quello. Non è quando (inizia ad essere irritante, ma seguitemi ancora un attimo) ti capita di sentire, per qualche personaggio, un grado di preoccupazione, di ansia e di empatia più grande di quanto ti sia mai capitato per un numero non indifferente di persone reali che conosci. Di persone a cui vuoi bene, perfino!

E' quando ti ritrovi convinto che quello, la persona in quel determinato passaggio, sei tu. Non è un pensiero che hai avuto. Nemmeno il pensiero più importante che tu abbia mai avuto. Non la tua idea del mondo, la tua filosofia, la tua ideologia. Non una persona che ti sembra più vera del vero, e qualcuno a cui ti affezioni, e che se potessi ti ci aggrapperesti di peso, con egoismo, per trattenerlo nella tua vita più a lungo possibile. Sei tu. L'autore ha messo te in un suo libro. Se riuscissi a recuperare almeno un briciolo di ragionevolezza, in tutta questa follia, potresti laicamente rallegrarti all'idea che in una piccola sfaccettatura, in un momento, l'autore sia stato così simile a te. Oppure che quel genere di persona, il genere di persona che tu sei, ha fatto breccia tra le sue conoscenze, le sue amicizie, ne ha fatto esperienza, ed eccola rielaborata su pagina. Potresti goderti la convinzione -ora assolutamente provata- che in altre circostanze saresti potuto perfino essere amico di questo autore. Ma non lo fai. E' il culmine dell'esaltazione e non è ammessa nessuna forma di scetticismo e nessuna concessione al buonsenso. Quello sei tu.

(visto che ormai nessun piacere è più pieno e perfetto -ah, i buoni piaceri di una volta- arriva il lato amaro di questa rivelazione. Ripensi alle occasioni in cui, di queste epifanie, sei stato testimone. Quando è capitato ad altri, con altri autori. Ti torna in mente tutto il fastidio -e quella punta di disprezzo- che hai provato. Te ne penti, sinceramente.)

"Il minimo che può fare, al cospetto di quel genere di autentiche palle (le palle di chi si è suicidato, ndb. Corsivo già presente nel testo), è diventare egli stesso una persona di peso. Alla rotatoria, in attesa del momento opportuno per attraversare, Alex cerca di immaginare il discorso che potrebbe pronunciare in propria difesa se la sua vita fosse messa sotto accusa, se cioè fosse costretto a dimostrare di valere qualcosa. E' una specie di testo immaginario che si porta sempre dietro, assieme al proprio necrologio, perché da qualche parte nella testa di Alex egli è la persona più grande e famosa mai vissuta su questa terra. E in quanto tale, deve difendersi dalla maldicenza non meno che dall'oblio. Chi potrebbe farlo, altrimenti? In fin dei conti, Alex non ha fan."

Zadie Smith ne "L'uomo autografo".

giovedì 14 aprile 2011

Volevo scrivere due righe su quanto stia diventando fastidiosa e pedante l'insistenza di Saviano sulla "macchina del fango" e su quanto sia puerile farne una parola-chiave della propria retorica.

Pare sia stato preceduto.

martedì 29 marzo 2011

Il sonno della ragione non genera solo Borghezi.

Immagino che chi abbia seguito, anche saltuariamente, questo blog o il mio account su Twitter si sia accorto che su Vendola ho il dente avvelenato. Gli ultimi post dovrebbero aver chiarito che sono un grande fan della rubrica di Cerasa sul Foglio "Nichi ma che stai a di'?". Una rubrica di rara efficacia (non l'ho seguita con rigore giornaliero ma solo in un'occasione finora non mi sono trovato d'accordo - era qualcosa sull'euromediterraneo), di piacevoli leggerezza e semplicità, che ha in sé qualcosa dell'Aikido (usare i movimenti della mossa dell'avversario per rivoltarla contro se stessa, ed annullarla) e una spruzzata di maieutica socratica (lavora non tanto sull'affermazione-imposizione delle tue idee-posizioni ma sfrutta le affermazioni del dialogante, lavora su di queste, per aiutarlo a capire - e cercare di capire qualcosa tu stesso, nell'operazione). Fatto sta che le favole su una presunta nuova retorica politica, sognante e ispiratrice, sul ritorno della politica alle idee, ai valori, alla cultura e all'etica, ecc. ecc. ne escono a pezzi, senza il bisogno di grandi analisi -che possono essere rivolte ad oggetti più meritevoli- ma ridicolizzate dalle affermazioni che di queste favole dovrebbero essere invece la prova provata.

Si potrebbe obiettare che il giochino di estrapolare brevi frasi o spezzoni da libri, interviste, interventi completi lascia il fianco ad accuse di manipolazione e malafede; e che una coerenza e lucidità a tempo pieno non si possono pretendere nemmeno da un guru, da un maestro, da un profeta. Si tratta però di obiezioni molto fragili, dato che le citazioni non sono trabocchetti da fuori-onda o battute occasionali ma sono per la maggior parte tratte da quei testi, da quei libri e da questi discorsi che della presunta epica vendoliana dovrebbero rappresentare i libri sacri, o i decaloghi.

Poi ci sono puntate della rubrica come quella odierna. "A Sarajevo, dopo la guerra, una delle cose che mi sconvolse di più è che avevano tagliato tutti gli alberi perché servivano a scaldarsi". Sono i momenti in cui capisci che ci si può fare una risata, su queste cose. Che si può essere catturati dal senso di ridicolezza che la rubrica ricrea. Ma è possibile che arrivi, tra qualche mese, tra qualche anno, il momento in cui molti, migliaia, milioni, vedano in Vendola l'unica speranza, il salvatore, il sole dell'avvenire, e si battano perché possa vincere le elezioni. Politica economica, politica sociale, politica culturale, politica estera affidati a Vendola. Ad uno che a Sarajevo dopo la guerra si fa colpire dagli alberi tagliati. No, no, diciamolo come sa sbottare solo il cantante degli Offlaga Disco Pax: GLI ALBERI TAGLIATI. Ora: svuotare la mente, ripensare a questa prospettiva, rabbrividire ad libitum.


(parentesi di aneddoti personali. Ho conosciuto una volta, per poco tempo, qualche settimana, una persona deliziosa. Non l'avrei mai immaginato prima - una di quelle cose che scopri solo durante, o anche dopo. Purtroppo. Era stata una volta a Sarajevo - aveva un genitore croato. L'avevano colpita, in particolare, i segni delle pallottole ancora conficcate un po' ovunque, nei muri dei palazzi del centro. Ho un amico adesso a Sarajevo - quasi quasi come souvenir gli chiedo di tagliare e portarmi un albero della città.)

domenica 13 febbraio 2011

Effetti collaterali.

Una delle conseguenze dei fatti di queste settimane è che molti iniziano a sospettare -azzardiamo un capire?- quello che molti di noi universitari sospettavano -avevano capito- già da tempo.

Bocconi in fondo è solo un nome.

venerdì 14 gennaio 2011


Ho parlato più di una volta in questo blog della sensazione di sentirsi sempre meno di sinistra. Potrà valere molto poco dal punto di vista pratico (come se avesse un senso definirsi di sinistra ora che le categorie ideologiche ecc; come se fosse sensato muoversi, posizionarsi, trovarsi a causa dell'identificazione in una fazione invece che prendere coscienza dei singoli elementi delle diverse situazioni concrete ecc.). Ci pensavo giusto oggi, nella tentazione di scrivere su Twitter "devo muovermi ad invecchiare, altrimenti divento un patetico giovane reazionario, e non un arcigno vecchio reazionario". Sul piatto della bilancia, tra i vantaggi, posso di sicuro mettere la perdita della capacità di indignarsi. Chissà a quanti sembrerà una bestialità, ma è un passo in avanti notevole. Perché se ci si fa prendere da quella tipica indignazione montante (ogni indignazione è montante e si autoriproduce, si avrebbe la tentazione di dire), quanto ci si rovina il fegato, quanto ci si riduce a macchietta (per quanto di moda, oggi), quanto si finisce sempre lontani dall'avere la capacità di capire, o almeno di cogliere, la portata intera della situazione che abbiamo davanti.

Quando poi succede ancora, di indignarsi, invece di concentrarmi su questa, finisco a perdermi a notare tutte le sensazioni che mi dà, questa specie di ritorno. Bisogna ammetterlo, una sorta di ventata fredda sul viso, rinvigorente (il mondo migliore, ancora! Robespierre, Robespierre). Ma subito dopo come se si fosse spinti a forza in una stanza tremendamente piccola, che andava bene da piccoli, ci si stava comodi e c'era pure lo spazio per disegnarsi attorno avventure continue. Adesso è stretta, ci si sta scomodi e inadeguati.

Mi è capitato qualche giorno fa, perché Signori miei dove sta andando a finire la stampa. Con sorpresa, per un articolo sul Foglio di Buttafuoco. Perché, diciamocelo, il Foglio è un ottimo giornale di opinione. Dite che devo metterci un "nonostante tutto"? Non ho problemi a mettercelo: anche per me c'è un enorme nonostante tutto. E, spariamola pure grossa, dirà quello che dirà, sarà quasi mai condivisibile per noi, ma al di là di contenuti e opinioni, non è spesso un gran piacere leggere qualcosa di Buttafuoco? E anche la rubrica non prometteva male! Scorretta e impertinente (ma l'impertinenza non è un valore nella stampa? Non gongolavamo quando il nostro Riformista nel jingle di qualche tempo fa si definiva il Pierino della politica?) finché vuoi, ma divertente davvero. Basti leggere della Bruni e di Moratti (Hubbbbner. Il Darione che ha giocato anche nella Pievigina!) per farsi un'idea. Ma il pezzo di Buttafuoco su Magris, quanto cattivo gusto. Un giudizio che può essere accusato di tutte le aberrazioni imputate a Magris nell'articolo stesso. Rigidità, soggezione al luogo comune e al perbenismo, grigiore. D'altronde sono di parte, per Magris ho sempre avuto un'infatuazione (per il Magris editorialista, a dire il vero, del resto non ho letto nulla). Eppure devo ammettere che. Probabilmente tutte le critiche che gli vengono mosse non sono poi così infondate (e d'altra parte: in fondo il buon senso non è spesso privo di guizzi, vicino a qualche luogo comune, e via discorrendo?). Rimane la questione del "modo e modo" e direi che è stato passato il segno. Squadraccia? Olio di ricino? Confino? E' un gioco, certo, va bene. Anzi, va bene fin là, non troppo in là.

Ma l'esempio peggiore è Mimun. Direte (potreste dire, avendo ragione da vendere): beh, ti aspetti qualcosa da Mimun? La colpa è tua, che leggi cosa scrive. Lo ammetto, peccato mio. Ma ho sempre avuto un debole per le riviste, ed in casa mia solitamente passa giusto Sorrisi e Canzoni. Nel quale, dopo una decina di pagine circa troneggia ogni settimana un editoriale del nostro. In questo numero non si è nascosto ed ha affrontato di petto uno dei fatti della settimana, con buone dosi di coraggio. Controcorrente: Lula ha fatto bene con Battisti (l'ho colto il lieve retrogusto di sarcasmo, non preoccupatevi). Diciamocelo. L'avessero portato qui, qualche giudice connivente l'avrebbe lasciato uscire dopo poco. E, per di più (pensi, signora mia), quei pochi anni dentro li avrebbe passati in modi da nababbi (lo sanno tutti, in fondo, che nelle carceri italiane si sta da dio. Se qualcuno si suicida è perché a finire lì dentro è gente per forza tarda, che non sa capire in che paradiso sia finita) e fuori l'avrebbero aspettato di nuovo l'editoria furbetta, le ospitate faziose, la santificazione bastarda. Per cui che se ne stia in Brasile dove, tra vizio e vizio, lo coglierà la malattia ed il dolore e che ci pensi il Padre Eterno alla giusta punizione. Non sbaglia, lui.

L'indignazione è da tutte le parti allora. E in fondo conta poco la parte a cui ti senti affine (oh, dirlo dopo tutte le volte che abbiamo ascoltato "occorre essere attenti e scegliersi la parte dietro la Linea Gotica"), è altro che conta davvero. L'importanza di non essere Mimun.

martedì 21 dicembre 2010

In questi giorni, c'è un nuovo tarlo. Potrà sembrare che sia arrivato tardi. Hanno anche già creato una rubrica apposita sul Foglio. In realtà è un problema che mi porto dietro da lungo tempo - da molto prima che turbasse i sonni di molti. Da quando è entrato in SL (ma chi, lui? Non è che vi siete confusi? Noi si doveva andare dall'altra parte, quella dei riformisti seri. Qui siamo contromano); da quando si è deciso di farne il leader (ecco cosa succede, a far entrare cani e porci); da quando hanno aggiunto l'ecologia (e un pace no scusa? Ci starebbe tanto bene. Lo spazio è poco, ma puoi scriverlo in piccolo, o metterlo un po' in diagonale). Da quando le ultime campagne elettorali, intere, sono state buttate al vento per il suo stucchevole personalismo.

Comunque, ho un dubbio. Nichi Vendola? Ma lo dite sul serio, senza scherzare?

sabato 25 settembre 2010

Strategie.


Mi chiedo se qualcuno si chieda come tiro avanti in questo periodo. E' una cosa in fondo risaputa che ho bisogno di aggrapparmi ad un certo numero di cose, più di altri; e non è che sia rimasto molto adatto allo scopo ultimamente.

Beh, faccio come ho sempre fatto, solo con maggiore consapevolezza. Coi feticci; sempre avuti, e sempre stato capace di farmene di nuovi. Ora succede anche che alcuni tornino dal passato.

Uno dei crinali di differenziazione più resistente, e più ripido, nel mondo contemporaneo, è quello che separa gruppi di persone con diverso grado di accesso alle reti di comunicazione e informazione. Un certo numero di linee, come isobare, dall'andamento geografico molto più imprevedibile di quanto si possa immaginare. Sufficiente, per lo meno, a rendere estremamente friabili le dicotomie classiche -nord/sud, occidente/resto del mondo. Ho sempre avuto il difetto di ritrovarmi invischiato in luoghi non troppo favorevoli, da questo punto di vista. Giusto oggi ho riacciuffato la possibilità di guardare La7 -già sono tagliato fuori da Sky, vuoi mai che rimanga lontano dal quarto polo, vista la penuria. La conquista maggiore è il ritorno di Lilli Gruber. Lilli Gruber è un grande feticcio, di quelli che valgono per tre o quattro normali. C'era Lilli, con il muro, e pazienza se non ho dell'evento ricordi diretti, anzi, ancora meglio: è come fosse mitologia. Votato Lilli, in una delle primissime occasioni in cui ho avuto modo di farlo: erano le europee, e giusto i mesi in cui stavo abbandonando le posizioni più estremiste, scambiando il radicalismo con il liberalismo, il massimalismo con il riformismo. Giusto il momento in cui mi sono accampato attorno i Ds, prima di passare oltre, verso lo Sdi. Lei e Costa, quella volta. Mi è sempre piaciuta molto anche fisicamente, Lilli: un archetipo così valido delle donne che mi hanno sempre attratto, con la loro forte carica di fascino, ma talmente atipica da non essere per nulla universalmente riconosciuta, e che si manifesta sempre per vie traverse e molto tortuose. E poi è arrivata ad Otto e Mezzo, e anche quello lì era sempre stato un feticcio. La trasmissione, ma anche il suo ideatore -si perde il conto delle occasioni in cui ho trovato le sue posizioni insostenibili, e le argomentazioni a sostenerle ridicole, ma gira gira va sempre a finire che ogni sua iniziativa editoriale merita di essere seguita. Delizioso il suo fiuto per la spalla da scegliersi -anche lì, Luca Sofri, il feticcio dei feticci, ma durante quell'edizione, La7 non avevo modo di vederla.

E' tornata Lilli e anche questa è una cosa a cui aggrapparsi. E no, non desisto solo perché non sei più rossa, e perché per questo nuovo incontro hai invitato Scalfari: resisto anche a questo.

(A proposito di feticci: preso la raccolta di saggi "Cambiare idea" di Zadie Smith. Uno è sull'enorme carisma di Obama, pare; un altro su quanto David Foster Wallace fosse uno scrittore fenomenale. Ecco, qui dei limiti ce li ho: mi sa che non riesci a convincermi in nessuno dei due casi.)

domenica 12 settembre 2010

Cioè che è giusto è giusto

Bisogna essere pronti a riconoscere i meriti altrui, anche al di là delle antipatie personali. Soprattutto di fronte a grandissime carriere. Voglio dire, ha fatto un mucchio di cose importanti. Ha lanciato Uma Thurman, è stato con qualcuno che, sono sicuro, non si meritava minimamente.

domenica 29 agosto 2010

C'è già stato un Bulgakov o un Conrad prima di te.


Io nemmeno sapevo dell'esistenza di Neil Gaiman. Ci sono arrivato per le vie strette e tortuose di Internet. E dire che la modernità doveva farsi largo a forza di spaziosi boulevard; troppi inconvenienti con le barricate. Va a finire che per portare al livello successivo l'ossessione che mi sta montando per Amanda Palmer e, andando dal tutto ad una parte, per il suo account Twitter, mi metto a cercare notizie su questo suo fidanzato, che sembra essere una personalità artistica particolarmente prolifica e -molto- famosa. Nell'ora, abbondante, successiva passo in rassegna schede di Wikipedia, trame dei suoi romanzi e delle sue sceneggiature, critiche delle stesse. E' uno di quei momenti in cui maledico con insistenza il non essere cresciuto negli Stati Uniti o per lo meno in un Paese anglosassone (no, al diavolo, Stati Uniti e basta). Perché, per come sono fatto, se fossi cresciuto in un ambiente simile ora possiederei una meravigliosa e confortante cultura pop, che pettinerei per ore in uno stato di auto-esaltazione, che sarebbe una perfetta coperta di Linus per i momenti di crisi interiore: bando alle ciance e alle depressioni, ho sempre lei! Ho letto, ascoltato, guardato, accumulato ricordi e citazioni in scatoloni sempre più grandi, riempiendo lo spazio attorno a me; non posso mai essere solo. Perché potete raccontarvi molte balle, ma la verità è una sola: fuori dal mondo anglosassone, questo non è possibile; potete cercare di costruirne comunque una brutta copia, ma arrancherete sempre, affannandovi a tappare le fallementre il divario continuerà ad allargarsi. Momenti del genere non sono certo rari; è come quando dovete affidarvi ad un motore di ricerca per non essere riusciti a cogliere subito un riferimento di Perle ai Porci o dei Boondocks. Una volta, per prevenire, c'era almeno Condor; ora c'hanno rubato anche quello. Voglio una cultura pop molto più densa.

Ma c'è una frase di Neil Gaiman sulla pagina inglese di Wikipedia, con cui fare i conti (ovviamente si tratta di qualcosa che avete sempre saputo, e non è certo Gaiman a farvi sorgere per primo pensieri simili. Ma questa frase arriva come un fulmine a ciel sereno, mentre eravate persi tra pensieri opposti, e lo spiazzamento è grande); non è tutto così semplice.

“One of the joys of comics has always been the knowledge that it was, in many ways, untouched ground. It was virgin territory. When I was working on Sandman, I felt a lot of the time that I was actually picking up a machete and heading out into the jungle. I got to write in places and do things that nobody had ever done before. When I’m writing novels I’m painfully aware that I’m working in a medium that people have been writing absolutely jaw-droppingly brilliant things for, you know, three-four thousand years now. You know, you can go back. We have things like The Golden Ass. And you go, well, I don’t know that I’m as good as that and that’s two and a half thousand years old. But with comics I felt like — I can do stuff nobody has ever done. I can do stuff nobody has ever thought of. And I could and it was enormously fun.”

Perché, in realtà, la maggior parte del tempo sono perso in riflessioni del tutto opposte. Per esempio: vivere oggi, sotto questo punto di vista (solo sotto questo, probabilmente) è una gran fregatura. Non si può non rimpiangere l'epoca dei pionieri, quando molti stili e forme artistiche erano ancora sconosciuti e lungi dall'esistere, quando nuovi stili e nuove forme potevano essere create dal nulla, quando gli spazi erano ampi, tutto era verde e lussureggiante e potevi essere tu il primo a lasciarci un impronta. L'età delle scoperte e delle grandi invenzioni.

E non si tratta di un sentimento molto nobile questo. Non è l'intenso desiderio di dare il proprio contributo all'esplorazione; non è lo sfogo dell'ardore, del coraggio, dell'amore per il nuovo. Sotto molti punti di vista è una forma di pigrizia e di indolenza. Perché territori artistici vergini oggi esistono ancora, là oltre l'atmosfera, ma per esplorarli bisogna tirarsi a lucido, rimboccarsi le mani, studiare e raggiungere l'eccellenza, sperando che ci sia data l'opportunità di fare gli astronauti. Una volta non era mica così. I pionieri, i colonizzatori, non dovevano poi essere chissà quali spiriti nobili, ed anzi spesso non erano altro che carcerati (attuali, od ex), pochi di buono, criminali o la feccia più emarginata. Quando lo spazio era tanto e facilmente accessibile era tutto una cuccagna.

Non è poi molto giusta, questa cosa. Puoi anche avere un'idea brillante, con l'isolato sforzo della tua mente, ma è solo questione di quanto tempo ed energia vuoi impiegare nella ricerca e se fai le cose per bene scopri di sicuro che un discreto numero di altre persone l'hanno già avuta prima di te, e si sono presi la briga di svilupparla sufficientemente bene da non lasciarti la possibilità di aggiungere qualcosa di rilievo. Niente da fare, Cuore di Cane, Il Signore delle Mosche e Cuore di Tenebra sono già stati scritti.

Certo, non facciamo troppo i melodrammatici. Non è una trappola poi molto letale. Basta mettersi il cuore in pace, riflettere a mente fredda, e accettare l'idea che, per quanto troverete sempre qualcuno disposto a sostenere il contrario, il culto della novità che regna è senza dubbio pompato e non è per nulla necessario perdersi in foreste fitte, lande desolate, sentieri impraticabili; una sigaretta, una birra e passate in rassegna le solite strade abituali, confortevoli, tirando fuori quello di buono che è possibile. Ma a mente fredda, appunto; a mente fredda non c'è grande spazio per le soddisfazioni, e non si arriva certo dove c'eravamo prefissati.

giovedì 8 luglio 2010

Un ometto, ormai

Se uno è fortunato, davvero fortunato, ha una cosa in più degli altri. Beh, a dire il vero sono molti, questi possibili vantaggi comparati con cui spiazzare la concorrenza, sul mercato internazionale. Ma quando si arriva alla vita personale, lì il vero vantaggio è uno solo: la consapevolezza. Gli altri ondeggiano immersi in situazioni, contesti, sistemi, come se fossero al centro di un budino o una gelatina e, ovviamente, ovattati in quel modo, non capiscono niente di quello che succede attorno. Ma tu no, tu vedi i singoli avvenimenti mentre accadono, li isoli, e li comprendi. Che sia chiaro, questo non ha alcuna ricaduta pratica, e ad essere venali non ci guadagni niente. Ma ti accontenti, non è in fondo poco riconoscere i passi importanti della propria vita, i singoli momenti che, boom, ti rendono più maturo.

Succede per esempio quando smetti di innamorati di attrici, cantanti, cantanti-attrici. E ti innamori di una scrittrice. Hai raggiunto una certa profondità. Ben fatto, amico.



sabato 3 luglio 2010

La fede è un piatto da servire freddo


Funziona così: il cult movie (cult movie in potenza, ma non ancora in atto) esce, non è che sbanchi il botteghino o chissà cosa, anzi muove queste prime mosse in sordina, ma sapete come va, le voci girano e la gente mormora e piano, come un diesel, va a finire che quel film si scava una nicchia nella memoria del pubblico, lancia espressioni o parole che possono perfino approdare al vocabolario, forgia l'immaginario comune.

Per esempio, con la fede va a finire così. Buio, buio, buio, poi arriva una luce -l'illuminazione- e sono balzi e capriole (credete forse che dovrei farne anch'io, di capriole simili, solo perché mi sta venendo una panza à la Belushi?) e gospel cantati tra folle deliranti. Arriva la luce, è un accecamento improvviso, e chi si ricorda più dei decenni di buio precedenti? Dove sono ora i giornali di partito, i giornali-partito, che non criticano un simile atteggiamento condonistico? Basta una simile ubriacatura e ci scordiamo le liste di peccati originali?

No, no, di una fede così il mondo dovrebbe saperne fare a meno. Io, nel mio piccolo, ci riesco. Non che rifiuti la fede del tutto, è che non è possibile vivere questa cosa con un po' di ragionevolezza in più, con calma e pacatezza? Quella luce è da sempre dentro di me, l'ammirazione, l'aspirazione, la devozione per un simile popolo eletto, caparbio e tenace, affidabile e puntuale. La fede non è proprio qualche mossa circense, delle urla ispirate, e sperare che questo basti, e si sia apposto così. E' riconoscere il valore, collocarlo nel giusto luogo, capire ciò che manca, a noi, per raggiungere quel livello, per essere degni della rivelazione, e colmare la distanza a passi ostinati. Da parte mia, oggi assisterò alla funzione con una gran calma dentro, godendomi la tranquillità zen di un simile rapporto con la fede, conscio del fatto che sempre giusta è la strada tracciata dalla forza, e non avrebbe senso un'inversione di marcia alla prima curva.

(ed ora, cancellate tutto. Perché più forte della fede in una nazione è la fede nell'uomo. Nel profeta riconosciuto, che miracoli ha compiuto lungo tutta la fascia di Galilea, per mostrarci la verità, affinché l'imprimessimo nelle nostre menti e ne conservassimo il ricordo, dopo la sua ascesa alla mediana. E se segna lui, al diavolo la pacatezza, butto giù la casa -che per l'occasione non è nemmeno la mia, troppa fortuna.)

domenica 13 giugno 2010

Io ne bevevo quando tu ancora giravi video rap


Un uomo che non capisce nulla di birra, non capisce nulla di nulla.

Il presidente ha ricordato al premier che gli Usa hanno registrato un maggior numero di vittorie contro l'Inghilterra, scommettendo "la migliore delle lager britanniche contro la migliore birra americana" su una vittoria statunitense.

domenica 18 aprile 2010

La tv è specchio del mondo


Sui contenuti della politica del Dalai Lama ce ne sarebbe da discutere per giorni. Io finisco immancabilmente per essere molto critico e scettico su ogni punto in questione.

Mi pare però che sui modi della stessa, sulla allure del personaggio e sui suoi metodi comunicativi ci sia ben poco da cui discutere, prima della bocciatura. Una prova per tutte? In uno dei giochi della prima puntata de La pupa e il secchione, in cui le ragazze erano chiamate ad indovinare il nome della persona mostrata in fotografia, l'unica che è stata indovinata al primo tentativo, senza bisogno di aiuti e suggerimenti, indovinate chi era? Quando si dice autoevidenza.


venerdì 23 ottobre 2009

New York Telephone Conversation


-Pronto, Renato? Sono Io. Guarda, sto chiamando un po' tutti, ho visto questa cosa. G-e-n-i-a-l-e! E mi è venuta un'idea, dobbiamo proprio lavorarci su. Come? Ah, cosa intendo? Non ci crederai, ma ho visto una cosa. E' tipo un carro, ci butti dentro della benzina, e questo va da solo, eh! Ma veloce, dovresti vederlo! Fidati, garantisco io, la più grande invenzione of ever. Non troveranno mai niente di meglio. E qui ti arrivo io, giustamente, con un'idea fenomenale. Quest'aggeggio, fantastico, giusto un po' scomodo per la manovella da girare ogni tanto, ha tutti i pregi del mondo, ma non va sull'acqua. Per cui ho pensato, per quell'isoletta laggiù: un bel ponte! Come dici Renato? La Sardegna? Mah, son strani quelli, e se ne stanno lontani, per conto loro...e poi senti, si son voluti Soru, fino a poco fa? Che si arrangino, va'! E non mi interrompere, cavolo! Dicevo, facciamo un bel ponte, serve un po' lungo, vabbè, ma in qualche modo facciamo. E poi sai cosa? Ascolta la trovata. Quand'è finito, e lo inauguriamo, ci passo per primo io, a piedi (un pezzo Renato, giusto per la scena), arrivo, con tutta la folla festante sotto, alzo le mani e faccio: avete visto? E l'abbiamo fatto per voi, perché io potevo anche camminare sulle acque. Che forza, eh, Renato!
Come? Cosa dici, Renato? Parla chiaro, cavolo, che non ti capisco. L'internetto? Veloce, per tutti? Aah, Renato, lasciami perdere 'ste mode cavolo, che poi passano! T'ho detto che l'ho già trovata, l'innovazione più grande di sempre.

(Lo dico chiaro e tondo, mi vendo spudoratamente. Se Renato mi sostituisce il 56k con una rete ADSL, diventa il mio ministro preferito. Of ever)

martedì 20 ottobre 2009

Non escludo il ritorno

Faccio outing. Tanto qui, a raccontarci le nostre cose, siamo in quattro gatti. E' un outing sussurato diciamo, un po' biascicato. Da paraculi, a voler essere sinceri; se vi girate e mi chiedete che ho detto, sono bell' e pronto a negare.

A me piace il calcio. Il calcio mi piace molto, se vogliamo dirla tutta. Certo, c'è stato un recente ritorno di fiamma, che mi permette temerariamente di uscirmene con questa sparata.

Mi piace il calcio per due motivi. Per il suo tatticismo esasperato, capace di ammazzare anche il genio, lo spettacolo, la grinta e la voglia. Per quell'ammassarsi di numeri, statistiche, schemi e movimenti, con l'intento di preparare la battaglia fino all'ultimo dettaglio.

Mi piace il calcio perché è mitologia. E' un intreccio di storie, di casi, di fatti umani. E' una galleria di eroi che eroi non sono per nulla. Perché diciamocelo, questi corrono e calciano una palla. Ma eroi lo diventano, un po' per quel loro considerarsi tali, al di là di ogni evidenza, del più comune buonsenso, di un anche misero senso del pudore. E lo diventano per ciò che riescono a scatenare in tante persone.

Ripenso un attimo alle mie mitologie da bambino. Guarda caso, spesso avevano a che fare con l'Africa. Quel marziano di Phil Masinga, l'abissale inutilità di Ba, la stolida grandezza di West, la mia passione per Mboma e quell'enigma inspiegabile di Jay-Jay Okocha. Mi ricordo che mi innamoravo dei giocatori più improbabili, eppure non era una posa. Mboma, appunto. Rapaic, quel genio inafferabile di Nakata, bisognerebbe raccontarla la sua storia. L'indomabile Schwoch. Dovrei scriverne ogni tanto, un'epica figura alla volta.

Forse non lo farò mai, e spererò che questo outing sia caduto nel vuoto. In fondo, era giusto una scusa per dire che oggi è tornato. Lui era il più grande di tutti, per me.