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martedì 24 maggio 2011

Relazioni internazionali for dummies/1

A chi fosse un principiante, a voler fare i brillanti si può descrivere la materia di studi "relazioni internazionali" come un campo sterminato, a perdita d'occhio, delle teorie più balzane e disparate, allineate secondo il principio "tu provaci" (la presunta scientificità è infatti al massimo una vaga aspirazione; per riuscire in qualche modo ad arrivare a un sistema che permetta di spiegare contemporaneamente più di un fenomeno, o di azzeccare qualche previsione, l'unico metodo possibile -il metodo effettivamente usato, oggi- consiste nell'avanzare un numero sterminato di teorie, che finiscano per comprendere se non tutte le possibilità del reale -impossibile, si penserà- la maggior parte di esse. Questa applicazione alla buona dell'idea "tanti pesci nel mare" è conveniente per tutti: il pesciolino fortunato nel caso in questione ottiene una discreta fama, chi ha toppato non si vede presentare nessun conto -a patto di non uscirsene con il motto più stupido di sempre, come Fukuyama- la disciplina, presso l'opinione pubblica, non perde parte del suo credito, già giocato tutto in precedenza). Dicevamo: un campo sterminato delle teorie più disparate e spesso balzane, che si estende tra le fila ordinate di frasi memorabili pronunciate da personaggi destinati a essere eterni o a essere dimenticati il giorno seguente, al di là di quella frase. Frasi perfette, cinematografiche. Dignitose. Eroiche. Pop. Ironiche dell'ironia più raffinata. Sarcastiche del sarcasmo più affilato. Troppo stupide o goffe per essere vere. Definitive. Lo sappiamo tutti, in questo campo, che l'unico vero guadagno è una batteria infallibile di citazioni e aneddoti, da giocarsi nelle discussioni e negli aperitivi.

Oggi Netanyahu se n'è uscito con una frase del genere. Inesorabile e teatrale. Perfetta nel riassumere gli ultimi fastidi israeliani. Con la più bella goccia di risentimento distillato che abbia mai letto nero su bianco.

"Mr. President, you don't need to do nation building in Israel. We're already built."

domenica 13 febbraio 2011

Effetti collaterali.

Una delle conseguenze dei fatti di queste settimane è che molti iniziano a sospettare -azzardiamo un capire?- quello che molti di noi universitari sospettavano -avevano capito- già da tempo.

Bocconi in fondo è solo un nome.

venerdì 16 ottobre 2009

Qualche novità, sul fronte occidentale


Quel cambiamento di cui si parlava, qui e lì, su questo blog, prima o poi ti piglia. Ti passa alla centrifuga, e sei hai la forza (od il culo, diciamocelo) di uscirne tutto intero, ti lascia una pungente, ma piacevole, sensazione di spaesamento e barcollamento. Come un tagadà, od un paio (è un po' di più, lascio?) di birre buone.

Dopo aver chiuso un primo capitolo (come, cripticamente, da post precedente), si è riusciti ad aprirne un altro, nonostante sia sembrato quasi impossibile, prima un passo e poi un altro, che non volevano saperne di lasciarsi ammansire. Pane (insomma) e tetto, perché dopo tutto sempre questa rimane, la lotta per la sopravvivenza. In scala minore, ovviamente, perché tutti sembrano considerarci ancora troppo "piccoli" per la vera vita, quella cinica e bara, e forse abbiamo finito per crederci anche noi.
Ho trovato un posto, da solo. C'entra, davvero, con quello che ho studiato fin qui. Il mio compito si prospetta stimolante, una sfida per molti versi, avrà certo un andamento altalenante, come impegno, e per ora si è trattato della fase di secca. Si aspettano i tempi migliori, ed intanto ci si gode una città austera e decadente, la possibilità di veder passare di fianco a te nomi che finora avevi solamente potuto leggere sui giornali, la sensazione lasciata sulla pelle dall'esplodere delle bollicine frizzanti, là dove sgorgano le idee (e sui giornali, di ciò che ha detto Draghi, c'è stata una gran strumentalizzazione).

E non poteva che accadere sul fronte occidentale, tutto questo. Perché su quello orientale sono le piccole truppe, con le armi giocattolo, a muoversi, a mimare la guerra, ma tutti sanno che è solo un espediente, un'altra linea su cui tenere impegnato il nemico, sfiancarne la forza, spezzarne la tenacia, ma da cui non si può cavare nulla di buono. Lo sanno tutti, tranne quei miseri generali schierati, le capocchie di spillo che pensano di poter essere nuovi Napoleone.
Non poteva che essere ad Ovest. Verso Occidente l'Impero volge il suo corso. E seguendo il sole si muovono tutte le migrazioni, nella speranza di trovare là un posto un poco più caldo.
Ci siamo uniti ad una carovana, allenando i nostri occhi a seguire orme, a scovare sentieri, a spaziare per le praterie. Ci siamo creduti pioneri, ma nel nostro piccolo, con garbo. Ché tanto, arriverà il nuovo anno e sarà tutto finito, ma almeno è stato. Avremo giocato a fare i grandi. Combattere una battaglia, mandare avanti una casa, essere dottori del sé.

Io provo e cado e provo
e ritto sto per un momento...
e bevono i miei occhi i voli, i salti
le mie foreste e gli altri.
E dove l'aria in fondo tocca il mare (beh, non proprio...)
lo sguardo dritto può guardare.

(Avrei potuto mettere Abramo non partire, non andare, non lasciare la tua casa, cosa speri di trovar; ma che sia chiaro, che non si porti sfiga qui)



giovedì 15 ottobre 2009

Conquistando Alemannia

Uno dei miei versi preferiti (probabilmente il mio verso preferito) è stato a lungo "I'm worse at what i do best, and for this gift i feel blessed". Non c'è bisogno che vi dica da che canzone è tratto, immagino. Oltre ad essere bello dal punto di vista letterario -quella fila di parole brevi, una dopo l'altra, ficcate nella prima parte della frase, che trasmettono all'occhio ed all'orecchio in modo inequivocabile, e tangibile, la concitazione che deve attanagliare emotivamente la persona che ci sta parlando- è magnetico nei contenuti, nel concetto che butta lì, sul tavolo, ed ora non puoi più ignorarlo. E', con ogni probabilità, il verso che meglio simboleggia ciò che il grunge è stato, ciò che ha significato, il motivo per cui ha avuto tanta presa su quella generazione.

Ne è passato di tempo, uno dopo l'altro hanno fatto capolino altri "versi preferiti" (al momento, per esempio, sarei pronto a mettere la mano sul fuoco che il verso più bello di tutti i tempi è "You're a bully and a clown, you make cry and put me down", The Jeep Song, The Dresden Dolls. Non sarei altrettanto propenso, però, nello scommettere sull'immortalità di questa mia granitica certezza) e preda dei miei mille revisionismi sono arrivato perfino a dubitare che quel verso ce l'abbia, un senso -un senso autentico e genuino, intendo. Ovvio che non ce l'ha, com'è forse possibile provare una simile sensazione senza aver compiuto un monumentale lavoro, su di sé, di autoconvincimento, al fine di riuscire ad assumere una posa tanto teatralmente intrigante? (è nel solco maudit che attraversa tutta l'arte moderna, da Baudelair fino a Morrison, infine riciclato, nel nuovo spirito dei tempi, da Cobain). E la butto lì, pesante come un macigno: in fondo il grunge non era altro che quella posa con cui ci piaceva atteggiarci.

Ne è passato di tempo, dicevo, e molto è cambiato. Se capita che senta necessario ricordarmelo, in un attimo di smarrimento, in cui mi sembra che invece tutto rimanga uguale, nonostante il tempo, basta che recuperi, con la memoria, quel verso. E' come un estraneo, ora; ed invece, giusto qualche settimana fa, toh! La rivelazione. Ciò che ti fa sentire non solo benedetto, ma un dio stesso, è trovarsi, per un attimo, i migliori anche in ciò che -in teoria?- ci riesce peggio.

La storia è fatta di rivoluzione copernicane, già.