martedì 21 dicembre 2010

Appunti per un talk-show.

La vecchia storia del così si passa dalla parte della ragione a quella del torto, ma non proprio uguale. Partiamo da più lontano. Chiunque guardi dei talk-show politici (io ne sono malato) sa bene che la bassa qualità di questi programmi è un simbolo facile facile dei problemi del mondo della politica del paese. Uno che su questo tema si è speso molto, tanto per citare un nome, è Luca Sofri (ok, si, va bene, qui citiamo sempre lui. Fatevene una ragione). I tre problemi più evidenti di questi talk-show -non gli unici, ma quelli che saltano agli occhi di chiunque li guardi, o quasi- sono: una parte consistente degli ospiti si pone il compito non di partecipare allo sviluppo di un dibattito e di rispondere nel merito delle domande che le viene posta, o delle tesi avanzate dalle altre parti, ma di indovinare la frase o le argomentazioni che facciano sembrare la fazione che sostiene dalla parte della ragione (da qui la preponderanza degli slogan sui ragionamenti; il carattere frammentato delle discussioni, che non riescono ad avere un vero filo logico; il cadere nel vuoto di temi e particolari che sarebbero invece fondamentali per la formazione e l'informazione dell'opinione pubblica); secondo, molti ospiti urlano; terzo, gli ospiti si interrompono a vicenda e si accavallano.

I primi due problemi sono di difficile soluzione. O meglio: avrebbero entrambi una soluzione molto semplice ma il cui impiego concreto è molto improbabile. Per il primo, un netto miglioramento sarebbe possibile attraverso l'invito, come si fa in molti altri paesi, Stati Uniti tra tutti, di analisti della politica, invece che politici in prima persona. Se nel nostro Paese il tenore dei giornalisti politici (per lo meno in un certo tipo di stampa) lascia a volte a desiderare, esiste un numero elevato di "tecnici", scienziati della politica o di altre scienze umane che lavorano per università, centri studi, think-tank, fondazioni. Riguardo ai politici, è sufficiente una cernita abbastanza superficiale, per riuscire a separare quei politici che possono vantare una rispettabile caratura intellettuale e che sono davvero in grado di forgiare le politiche del proprio partito e capirne le implicazioni da quelli che sono riusciti ad autopromuoversi attraverso sparate estemporanee o da caserma. Per il secondo, è sufficiente abbassare, se non spegnere, nei casi in questione, il microfono dell'ospite. In un primo momento ci sarebbero denunce varie ed eventuali di censura, o di limitazione della libertà di espressione ma non ci vorrà troppo tempo prima che sia chiaro a tutti che è in gioco non la possibilità di esprimere un pensiero, ma il modo in cui questo viene espresso.

Ma è riguardo il terzo problema che voglio lanciare un appello. L'interruzione di un ospite da parte di un altro ospite è una pratica barbara. Qualcosa di incivile che al giorno d'oggi ecc. ecc. In più, oggi è diventata una tecnica di guerriglia. Chi la adotta è a conti fatti una sorta di vietcong. Basta già solo che adotti questa tecnica ed è ovvio che si tratta di una persona che di moderato ha poco; si tratta di qualcuno che rifiuta con spregio l'occasione di dibattito o di dialogo e che la vuole buttare in guerra. In più, schiva con attenzione il campo aperto, e si dà alla macchia, cercando di sfiancare l'avversario con punzecchiature ed interruzioni intermittenti. Tanto, in fondo, non ci perde niente; non ha, ovviamente, le qualità per partecipare al dibattito attraverso modi più convenzionali e, in questo senso, non ha una faccia da perdere. Poi, capita spesso che gli vada anche bene, questo giochino, e che riesca a far perdere il filo a chi sta intervenendo oppure di far passare l'impressione che l'altro sia impreparato (il discorso non riesce a completarlo in modo lineare o, comunque, la linearità non viene percepita da chi ascolta; per un gioco perverso una parte degli ascoltatori può essere portata a credere che le interruzioni siano colpa sua -se il suo discorso filasse come un treno, l'altro non troverebbe gli attimi per infilarsi nell'intervento).

Bene. Qui vogliamo lanciare una campagna per la messa al bando dei "non mi interrompa", "mi faccia finire", "posso finire?" e infine dell'astro nascente "io non l'ho interrotta, però, faccia altrettanto". Sono mosse sbagliate, nella teoria e nella pratica -e inoltre stanno subendo una metamorfosi che le trascina alla deriva. L'errore più evidente sta nel loro effetto pratico. Un ospite che ne faccia ricorso corre seri rischi di passare per spocchioso, se non di peggio. Un abatino, un damerino inamidato. Qualcuno che si sottrae al tipo di dibattito che si sta sviluppando perché non è in grado di parteciparvi (non perché non voglia). Un debole che si tira indietro quando il gioco si fa duro. Far passare una simile immagine di sé va a danno non tanto della propria persona, ma della tesi che si sta sostenendo, che si presume essere valida ed importante per il Paese. E' sbagliata nella teoria perché una simile frase ha senso solamente se riesce ad ottenere l'obiettivo prefissato e in simili situazioni cadrà sempre nel vuoto. Con espressioni del genere, inoltre, si finisce per trasformare quel tipo di educazione, di civiltà, di moderazione in una semplice regola del gioco o peggio in una merce di scambio (io non l'ho fatto, non lo faccia nemmeno lei). E' molto più saggio limitarsi a trattenersi dal cadere a propria volta in questa forma di maleducazione e sopportare quando ci viene rivolta, magari giocando con pause ad effetto nel parlare, quando servono a rendere palese quando l' (altro) re sia nudo. Qualcosa di simile è la strategia, per esempio, della De Gregorio. Si rischia di passare per remissivi, ma a me sembra davvero il male minore.

Per cercare di risolvere il problema, altro appello: conduttori di talk-show adottate una forma di segnaletica in sovraimpressione con del testo che metta in chiaro quando simili forme di interruzione sono esempio di maleducazione e non gradite nel programma, nei casi in cui questo succede.

(altro appello, visto che c'ho preso gusto. In particolare ai registi di quei talk-show che hanno fama di essere più "schierati": basta inquadrare le espressioni degli altri ospiti quando sta parlando un altro invitato, o il presentatore. Inquadrate la persona che sta parlando, o mandate delle immagini che abbiamo a che vedere con quanto viene detto. Vi credete furbi, a beccare una risatina involontaria di un membro del governo ad una vignetta di Vauro. Varie manifestazioni di dissenso o di orticaria quando parla un leghista o qualcuno di sinistra sinistra. Una qualche pantomima di un dipietrista. Beh, proprio per niente.)
In questi giorni, c'è un nuovo tarlo. Potrà sembrare che sia arrivato tardi. Hanno anche già creato una rubrica apposita sul Foglio. In realtà è un problema che mi porto dietro da lungo tempo - da molto prima che turbasse i sonni di molti. Da quando è entrato in SL (ma chi, lui? Non è che vi siete confusi? Noi si doveva andare dall'altra parte, quella dei riformisti seri. Qui siamo contromano); da quando si è deciso di farne il leader (ecco cosa succede, a far entrare cani e porci); da quando hanno aggiunto l'ecologia (e un pace no scusa? Ci starebbe tanto bene. Lo spazio è poco, ma puoi scriverlo in piccolo, o metterlo un po' in diagonale). Da quando le ultime campagne elettorali, intere, sono state buttate al vento per il suo stucchevole personalismo.

Comunque, ho un dubbio. Nichi Vendola? Ma lo dite sul serio, senza scherzare?

venerdì 10 dicembre 2010

Giochi di dicembre

Nell'attesa delle varie classifiche sui 100, o 50, o 25 (per i più anticonformisti: 20) migliori album del 2010 -un trittico di sicura affidabilità: NME, Pitchfork, il Tab di Cambridge- ottima occasione per recuperare le uscite non considerate e soprattutto per cercare di capire, da quella lista, se il 2010 è stato un altro anno di desolazione con qualche cattedrale nel deserto, o se sarà ricordato per la nascita di nuove correnti, stili, scuole, scene, ecco, per il momento, una classifica delle venti migliori cover dell'anno. Ché qui alle cover ci teniamo.