venerdì 3 giugno 2011

Il mare non va bene.

Perché la sabbia si infila dappertutto, la gente tira fuori il peggio di sé, c'è troppo sole, si rischia perfino di abbronzarsi. Come dei Michael Jackson alla rovescia.

Ma tutto qui. Non è che il mare non vada bene anche per altri motivi. Vi diranno, con occhi indignati, che il mare non va bene perché votare è un diritto, sì, ma è anche un dovere. Rispolverano la cara vecchia categoria del diritto-dovere.

Il motivo è che in Italia non c'è una religione civile, sospetto. A doverla costruire, per di più con gli sforzi provenienti da un'unica parte, ci si deve rifugiare nelle categorie che incutono timore, anche se non significano nulla.

Va da sé che non sia un dovere. Un dovere è un comportamento o un'azione che si è tenuti ad adottare a favore della società, delle istituzioni, dell'ordinamento legislativo (a differenza dell'obbligo, i cui "intestatari" sono specifiche persone e non la collettività nel suo insieme). Parte fondamentale del dovere è la sanzione prevista in caso di un suo mancato rispetto, tanto da costituirne un elemento fondativo. Non può essere questo il caso: ho un (spero falso, visto l'abominio in questione) vago ricordo, quando ero piccolo, di una proposta che era circolata, al primo manifestarsi di un astensionismo rilevante in Italia, presi dalla paura che si finisse come in America, di limitare in qualche modo il diritto di voto attivo di chi per un certo numero di elezioni non lo avesse esercitato. Ovviamente un Paese civile non approverebbe mai una simile norma.

Forse meno immediato è il concetto che il diritto di voto non possa essere un dovere. Quello che consideriamo il sistema desiderabile per antonomasia, la democrazia (continuiamo a chiamarla democrazia, fingendo che la sua desiderabilità non stia nel fatto che si tratti di una democrazia liberale), è il sistema che ha permesso ai cittadini di essere titolari, intestatari, della sovranità, e in quanto tali titolari anche del diritto, salvo rare eccezioni e limitazioni, di esercitarla. Il cittadino può concorrere all'esercizio del potere, attraverso diritti di elettorato passivo e attivo. Ma, appunto, di possibilità si tratta. I sistemi in cui la partecipazione dei cittadini è pretesa sono o sistemi arcaici (la democrazia greca) oppure sistemi alquanto...sinistri? La partecipazione di massa e obbligatoria è una caratteristica fondamentale del fascismo e del nazismo, ad esempio. Tutti cooptati.

Volete per forza uno slogan facile e accattivante? Una frase da Bacio che sostituisca la stupida "Votare è un diritto ma anche un dovere"? Provate a usare questa: "il diritto di voto è un diritto fondamentale tanto quanto il diritto di non voto". Suona peggio? Almeno è sensata.

mercoledì 1 giugno 2011

Controprove.

E' decisamente un mondo in cui vale la pena vivere, quello in cui anche gente del genere riesce ad uscirsene con un paio di gran canzoni.

martedì 24 maggio 2011

Relazioni internazionali for dummies/1

A chi fosse un principiante, a voler fare i brillanti si può descrivere la materia di studi "relazioni internazionali" come un campo sterminato, a perdita d'occhio, delle teorie più balzane e disparate, allineate secondo il principio "tu provaci" (la presunta scientificità è infatti al massimo una vaga aspirazione; per riuscire in qualche modo ad arrivare a un sistema che permetta di spiegare contemporaneamente più di un fenomeno, o di azzeccare qualche previsione, l'unico metodo possibile -il metodo effettivamente usato, oggi- consiste nell'avanzare un numero sterminato di teorie, che finiscano per comprendere se non tutte le possibilità del reale -impossibile, si penserà- la maggior parte di esse. Questa applicazione alla buona dell'idea "tanti pesci nel mare" è conveniente per tutti: il pesciolino fortunato nel caso in questione ottiene una discreta fama, chi ha toppato non si vede presentare nessun conto -a patto di non uscirsene con il motto più stupido di sempre, come Fukuyama- la disciplina, presso l'opinione pubblica, non perde parte del suo credito, già giocato tutto in precedenza). Dicevamo: un campo sterminato delle teorie più disparate e spesso balzane, che si estende tra le fila ordinate di frasi memorabili pronunciate da personaggi destinati a essere eterni o a essere dimenticati il giorno seguente, al di là di quella frase. Frasi perfette, cinematografiche. Dignitose. Eroiche. Pop. Ironiche dell'ironia più raffinata. Sarcastiche del sarcasmo più affilato. Troppo stupide o goffe per essere vere. Definitive. Lo sappiamo tutti, in questo campo, che l'unico vero guadagno è una batteria infallibile di citazioni e aneddoti, da giocarsi nelle discussioni e negli aperitivi.

Oggi Netanyahu se n'è uscito con una frase del genere. Inesorabile e teatrale. Perfetta nel riassumere gli ultimi fastidi israeliani. Con la più bella goccia di risentimento distillato che abbia mai letto nero su bianco.

"Mr. President, you don't need to do nation building in Israel. We're already built."

Come diventare uomini

In giusto undici tracce.

Comprarsi Highwayman (unica vera superband della storia della musica, Johnny Cash, Willie Nelson, Waylon Jennings, Kris Kristofferson) alla fiera del disco di Conegliano.


Ascoltare alla nausea "The Ballad of the Leningrad Cowboy " dal mirabile film "Leningrad Cowboys go America".

Ladies and Gentlemen,

in this town there are millions of stories,

this one is mine.

I've always been a farmer,

at Collective 49,

worked the black soil of the Russia

for potatoes and some wine.

I was happy driving tractors,

for at last twenty years,

till the local commisar let my wife disappear.


I'm a Leningrad cowboy,

raising cows on the steppe.

Won't you pour me another vodka,

cause I'm drinking to forget.


He's a Leningrad cowboy,

raising cows on the steppe.

Won't you pour him another vodka,

cause he's drinking to forget.


He's a Leningrad cowboy,

raising cows on the steppe.

Won't you pour him another vodka,

cause he's drinking to forget.


Continuare l'applicazione per almeno due settimane, se necessario rafforzare la cura con dosi abbondanti di manipolatori ascolti nel sonno. Si garantisce la scomparsa dei persistenti effetti di infanzia passata chiuso in casa con libri e tv, mentre gli altri ragazzini fuori giocavano ed esploravano. Di mancanza di figure maschili di riferimento. Di decenni di vita nella demascolinizzante società contemporanea. Risultato garantito: diventa anche tu un rude uomo virile di una volta.

Questa non è spam.

Possibili effetti collaterali: comparsa di speroni, dipendenza da fibbie di cuoio.

lunedì 23 maggio 2011

martedì 10 maggio 2011

RT

(Il fatto che sia partito mi dà l’occasione di scrivere questo patetico intervento.)

Quanto non adoriamo, tutti quanti, gli endorsement? La possibilità di dire la nostra un numero infinito di volte, di prendere ancora e ancora posizione su qualunque cosa? La possibilità di far sapere agli altri qualcosa di noi, molte cose, attraverso una singola scelta? (Far sapere agli altri qualcosa di noi è probabilmente ciò che desideriamo di più, in assoluto). Ed è così facile! Ci guardiamo attorno ed ecco che troviamo almeno due o tre nuove occasioni per schierarci. Io adoro gli endorsement. Sono un bel gioco – a costo zero, e capita pure di guadagnarci, di tanto in tanto. Con uno dei miei primi endorsement (Hillary Clinton. Già quattro anni – non ci si crede) ho avuto la possibilità di conoscere una persona e un blog (poi diventati vari blog) che sono ancora oggi l’incontro più piacevole che mi sia capitato in rete. Che sia un gioco – solo un gioco – non ci piove. Perché un endorsement possa essere davvero significativo, è necessaria una di queste due condizioni: che l’endorser abbia un’autorità morale, intellettuale o umana da spendere, in questo appoggio; che abbia un seguito – un pubblico, una platea, un gruppo di conoscenze disposti ad ascoltare questa decisione e ad accoglierla. Perché possa essere efficace, poi, queste due condizioni devono verificarsi contemporaneamente, in una qualche misura. Mancando a me, nello specifico, entrambe tutto resta solo un gioco. Poi nella migliore tradizione del tifo onnipresente, gli endorsement mi vengono spontanei nelle occasioni in cui l’oggetto o la persona appoggiata partecipano ad una sfida. Appoggiare, in questi casi, è una doppia scelta e doppio è anche il piacere che se ne ricava: si sostiene qualcuno nella misura stessa in cui si osteggia l’altro implicato. Per cercare di uscire da questa brutta abitudine, per muovere un primo passo per diventare una persona perbene, per darmi finalmente a un endorsement propositivo, scelgo un’occasione speciale. Questo è un endorsement a favore dell’artista Rodolfo Toé.

Nel farlo, mi trovo ad affrontare in particolare due scrupoli, tra i tanti.

Lo scrupolo n. 1 di questa occasione.

Quali possono essere i parametri di questo giudizio? Attraverso quali linee e schemi esprimere un parere su questa musica? Volendo essere prosaici: ne posso parlare come parlerei di quella di…Mozart e Dylan? Degli esempi più conosciuti della musica alternativa italiana, chessò, Afterhours, Verdena o Brondi? Degli altri gruppi che nella stessa realtà locale cercano di farsi un seguito? Di un concorrente della Corrida? Anche se questa non vuole essere una trattazione esaustiva e nemmeno una recensione secondo i criteri canonici, il problema rimane. La chiave di tutto sta nel chiarire cosa si intenda per artista, e quando qualcuno possa essere definito tale. Che ci piaccia o no, ancora oggi la maggior parte delle discussioni, quando si parla di musica, va a incagliarsi su questo punto. Ognuno ha visioni del mondo, teorie ontologiche ed ideologie culturali da poter chiamare in causa, come armatura alle proprie rocciose convinzioni. Ma non si va molto lontano, con questo approccio. Meglio scendere su un piano più concreto, e muoversi con la semplice intenzione di trovare un criterio, un parametro che ci permetta di separare e precisare, fosse anche con un taglio un po’ rozzo. E qui entrano in ballo questioni linguistiche. La definizione più banale che si possa dare del termine artista è: una persona che, operando in una delle discipline comunemente definite artistiche, compia una serie di azioni atte a produrre un oggetto che abbia finalità individuabili nello stimolare pensieri, riflessioni o sensazioni estetiche. Abbastanza chiaro. Non è nemmeno particolarmente problematico definire quali siano le discipline artistiche: dalla fine dell’Ottocento, con l’affermarsi definitivo di fotografia e cinematografia, il loro elenco è pressoché fisso e universalmente riconosciuto. La famiglia si è allargata con l’introduzione di nuovi campi, spesso crossover di quelli più classici (fumetto, videoclip, installazioni video, ecc.), ma senza subire eccessive trasformazioni.

Non si può però liquidare il problema senza prima considerare un piccolo dettaglio. La lingua è uno strumento e ha la sua funzione nel permettere alle persone di comunicare; con l’evoluzione della lingua scritta, anche quella di trasmettere questa comunicazione del tempo. La lingua ha dei propri codici, certo. I più importanti sono la grammatica e un bagaglio lessicale ereditato. Ma questa codificazione, questa rappresentazione della lingua come un sistema di leggi e di regole, è un risultato a posteriori e non la fondazione di tutto. Un risultato a cui si è giunti per garantire una base di strumenti condivisi per dare maggiore efficacia alla comunicazione e per espandere lo spazio fisico e concettuale in cui questa si può svolgere. Ma alla flessibilità e alla vitalità della comunicazione queste regole rimangono assoggettate. Sono valide fintanto che. Non “sono valide nonostante”. È uno dei motivi per cui le intransigenze giacobine di molti su grammatica e lessico sono puerili e noiose. È il caso per esempio di un noto autore americano (non facciamo nomi).

Bisogna allora riconoscere che oggi, nella maggior parte degli spazi quotidiani di comunicazione, il concetto di artista si è evoluto. E in parte si è distanziato da quello di arte che, ispirando una maggiore sacralità, si evolve con più lentezza e maggiori riserve. Oggi la categoria di artista ha una natura duplice, perché duplice è diventata a sua volta la natura delle discipline in cui questo svolge la propria attività. Al concetto originario si è aggiunto quello di spettacolo, di intrattenimento. Ridicole quindi le pantomime che fanno alcuni sullo sdegnato rifiuto di considerare determinati personaggi come artisti. Vittime più diffuse l’adolescente lasciva americo-canadese di turno, una manciata di band vocali maschili o femminili, spesso interi generi. E lo so bene, come va in queste occasioni. Scenate del genere le facevo io, più di tutti, fino a ieri. Un buon modo per smettere è accorgersi che non si è in nulla diversi dal vecchietto che bofonchia “no l’è miga …(parola da inserire a seconda della circostanza) quea lì”. Viene meno, quindi, la possibilità di appellarsi alla “qualità” come criterio distintivo, in questa nostra situazione.

Riprendiamo. Eravamo alla ricerca di un criterio per poter definire qualcuno un artista. Visto che sta andando per le lunghe, saltiamo qualche passaggio e conveniamo che non lo si può trovare, un criterio sufficientemente condiviso. Che ognuno si costruisca, allora, il suo e cerchi di radunarci attorno un feudo di convertiti. Per quanto mi riguarda, inizio a non sentirmi in colpa, nell’usare il titolo di artista, quando la persona in questione è arrivata al traguardo (una volta oggettivissimo, ora sempre più indefinito) della produzione. Valido, ovviamente, solo per determinate discipline. Musica, letteratura, cinema. Un discriminante molto poco romantico. Ma in fondo sensato. Se la persona in questione riesce a farsi pubblicare un disco, un libro, un cortometraggio, verosimilmente è uscito dalla fase dilettantistica della sua carriera. I suoi lavori hanno conquistato una certa attenzione e, cosa più importante, entrano in quei circuiti tradizionali attraverso cui la musica, la letteratura, il cinema ancora oggi passano (i tempi cambiano, ovviamente, e questo mio criterio ha i mesi contati. Ma non c’è stato ancora un cambiamento così radicale da sconfessarlo). E hanno un loro pubblico; potrà essere meno numeroso di quanto sperato o preventivato, ma esiste. Da questo punto di vista, Rodolfo Toè non è ancora propriamente un artista. È un artista in potenza, non in atto. Però, visto che una volta stabilita la regola, ci si può subito buttare alla ricerca dell’eccezione migliore, questa carta-bonus spendiamola ora. Il ragazzo ha un sacco di attenuanti per meritarsela.

Passiamo al problema successivo (avete mangiato la foglia, vero? Questo post sarà un unico enorme passaggio di problema in problema). Visto che ci siamo esposti nel sostenere il valore vivo e corrente del termine artista, ora ci tocca fare i conti con il fatto che alla maggior parte delle persone sembra assolutamente necessario dare un contenuto, un profilo morale e umano a questa condizione. Sarà che c’è crisi, che la congiuntura attuale è complicata, che il tessuto civile del paese e del mondo va deteriorandosi. Sarà che nella cultura non si investono più fondi, e tutto è in mano al mercato, e ormai si sa soddisfare solamente i gusti più bassi. Sarà tutto questo, ma oggi all’artista si chiede un’abnegazione morale. E l’artista in pectore dal canto suo esige che questa gli sia riconosciuta. L’artista può essere tale solo in quanto artista verticale. Verticale nei suoi contenuti, di volta in volta attenti a scendere, lungo questa direzione, per raggiungere gli abissi o le radici, l’essenza delle emozioni, dell’umanità, della realtà. Oppure a salire, e trascinare i temi di cui parlano –e i lettori, o gli ascoltatori, con essi- verso la redenzione, la salvezza, il paradiso, la perfezione. Toccare il fondo della realtà o elevarla al suo meglio. In entrambi i casi, quello che è richiesto è la profondità. Verticale, anche, nel suo atteggiamento morale. I piedi ben piantati per terra, le gambe tese, la schiena dritta come un filo a piombo, la fronte alta. Per poter essere faro dei popoli; per poter tenere d’occhio il comportamento degli altri, e censirlo. Soffiano forti venti gelidi contro di lui. La corruzione, l’immoralità, l’invidia. Portano con sé badilate di fango. Ma l’artista regge, imperterrito e saldo. È un profeta, o un martire. Al suo apice, un profeta martire. La libertà potrà anche essere partecipazione, ma i suoi sacerdoti sono queste integerrime figure solitarie. Il meglio che possiamo fare è porgere loro la frusta, e ascoltarle.

Visti tutti i danni che questa tendenza ha fatto, sarebbe forse il caso di iniziare a contrapporle con più insistenza la figura dell’artista orizzontale. Orizzontale nelle sue intenzioni intellettuali: qualcuno di voi ha forse mai trovato della profondità in un racconto di Carver? Immagino di no, visto che lì non ce n’è, di profondità. Ho notato che l’incisione Melencolia I di Dürer ha un numero di fan e ammiratori assolutamente superiore a quanto immaginabile. Nelle ultime settimane si è guadagnata almeno due articoli sulla stampa internazionale. E sono certo che non sia merito della sua simbologia o perché venga presa per l’impersonificazione stessa del sentimento. È per il riconoscimento: ne guardiamo il volto, analizziamo la postura del corpo, ci concentriamo su quell’unica macchia che è lo sguardo e riconosciamo quell’ombra e quelle forze. Sappiamo cosa significano. Qui sta il punto. L’arte, nei momenti migliori impressi su pagina o su tela, riprodotti su schermi o diffusi nell’aria, non è profonda. È orizzontale. Non fornisce spiegazioni del mondo, perché non c’è nessuna spiegazione possibile per qualcosa di così grande, vario e complesso; se anche esistesse non avrebbe una vita più lunga di quella di una farfalla. Non indica la strada per la redenzione: lo sanno tutti che la cosa migliore è strappare qualche piacere in questo purgatorio. Quello che fa è assorbire, riproporre e diffondere l’umanità presente nella realtà. Creare ancora, e ancora, empatia. E questo è uno dei motivi fondamentali per cui ognuno di noi, oggi, ha letto libri, ascoltato musica, guardato film più di chi sia vissuto nelle epoche precedenti; questa è la ragione, più ancora della relativa economicità odierna dell’arte, o del progresso tecnologico. Abbiamo un bisogno disperato di provare empatia –e di poter confermare a noi stessi di essere capaci di provarla. Di sentirci raccontare, e di vederci presentare le prove, che l’umanità esiste ancora. Se lo straniamento della vita moderna esiste, e non è solo una favola, questo bisogno urgente che ci coglie è il suo risultato più evidente. Un altro bisogno a cui quest’arte orizzontale risponde va oltre la testimonianza della sopravvivenza dell’umanità, e della possibilità di provare empatia per persone simili a noi. Messi di fronte a questa umanità eterogenea, abbiamo bisogno di venire a capo delle diversità esistenti. Di capire chi è diverso da noi, negli atteggiamenti, nelle credenze, nelle aspirazioni. In pensieri, parole, opere ed omissioni. Nella vita reale questo ci riesce solo a tratti, con discontinuità, con un numero limitato di persone. L’arte aiuta a coprire questi buchi – in essa troviamo la stessa varietà presente nel mondo, ma tenuta ferma e svelata. Continuando con il parallelo, questa orizzontalità è anche morale e umana, oltre che intellettuale. Ripensate per un attimo ai vostri artisti preferiti. Agli scrittori che avete amato di più. Ai musicisti che riescono a toccarvi certe corde. Che bella fiera, ne viene fuori. Alcolizzati, a metà o per intero. Fedifraghi impenitenti. Esperienze di droga non mancano di certo. Gente che si è barcamenata e ha tirato avanti con mezzucci vari. Certo, a meno che il vostro scrittore preferito non sia Terzani, ma voglio sperare non sia questo il caso. Anche chi poteva vantare virtù più salde si è ben guardato dal farsi censore e moralizzatore. Consci di quanto la verità, la giustizia, il bene non si possano trovare menando l’accetta per aria; di quanto la fallibilità, l’esposizione a mille e più contaminazioni e traversie, la tendenza a farsi catturare dalle passioni più piccole e degradanti faccia parte della natura umana, della natura di ogni uomo, hanno preferito lasciare ad altri il compito di censurare, alzarsi su un pulpito in pubblica piazza e sbraitare e inveire. Di Robespierre e Savonarola pronti a cogliere questa missione ce n’erano fin troppi, in giro. Hanno evitato, ogni volta che fosse loro possibile, di farsi tirare per la giacchetta, e doversi alzare (ben saldi, verticali, schiena dritta e fronte alta) e indignarsi. Capaci di capire le situazioni e le attenuanti, hanno perdonato – e l’hanno fatto senza tutto il cerimoniale con cui lo fanno i cattolici. Con i grandi ideali ci sono andati piano, li hanno guardati con diffidenza, con occhiate oblique, c’hanno giocato un po’, trovandoli patetici e posticci come una boccia di neve. Una boccia di neve del Cairo, snow in the Sahara. Non hanno mai messo su qualche barricata, per difendere una libertà, o pensato di buttare giù tutto, per fare strada a un ipotetico nuovo. La libertà che avevano in mente non richiedeva gesti così clamorosi, era al massimo la libertà per tutti di sognare e far l’amore (cit.). Con questo loro approccio sono sopravvissuti meglio. Potremmo citare quel pezzo che c’è in ogni antologia delle medie, Deledda, credo: nella tempesta, meglio la flessibilità della canna alla solidità della quercia.

Simili figure di artista non sono state certo rare. Figure altissime e significative. Ma, nel suo piccolo, nella scena locale in cui cerca di affermarsi Rodolfo Toè è un validissimo esempio di questo prototipo di artista, che al momento non sembra godere di buona salute. Non c’è saggezza nelle sue canzoni, tranne forse in “Per una casa verde”. E anche lì. È una saggezza davvero poco ambiziosa. Indirizzata a poche persone, a chi è stato a sua volta testimone delle condizioni che a questa rivelazione hanno fatto da premessa. Passeggera e fugace, destinata a tornare buona giusto per qualche momento. E inevitabilmente rivolta al passato e di poca utilità per il futuro. Eppure è solo questo che è possibile, e niente di più. Non si può ambire ad una saggezza superiore, perché una saggezza superiore non esiste. Per il resto, nelle sue canzoni non potrete trovare altro che qualche atmosfera (andiamo tutti così pazzi per le atmosfere. Se potessimo, non faremmo altro tutto il giorno che passare da un’atmosfera all’altra.), delle suggestioni. Qualche sentimento, qualche sensazione. Un certo numero di esperienze, una manciata di personaggi. Gente con cui vi troverete subito in sintonia perché non è in fondo diversa da voi. Gente che vi suonerà straniera, ma verrete in qualche modo presi per mano e aiutati a capirla. Un paio di occasioni per farsi una risata, o sfoggiare un sorriso. In fondo è questa, l’orizzontalità di cui parlavo. E niente soloni, niente omelie. I grandi valori assenti, barattati per un po’ di tranquillità. Nei suoi momenti migliori, Rodolfo Toè è un cialtrone.

Lo scrupolo n.2 di questa occasione.

Dopo aver cercato di spiegare quali siano i parametri di questo giudizio, un’altra questione spinosa. Può avere un qualche valore un giudizio mio? Immagino che più d’uno sarà portato a dubitare di quanto possano essere affidabili le mie parole. Alla fin fine, sono una parte in causa. L’artista è un caro amico –figurarsi se posso analizzarne i lavori con un sufficiente grado di obiettività. Potremmo metterci a discutere di quali siano gli elementi fondanti dell’oggettività. Potremmo spingerci anche oltre, indagarne la natura stessa, mettere in dubbio perfino che possa esistere qualcosa del genere. Risparmiamoci la fatica. Facciamo che, se volete concedermi tanto credito, vi assicuro che non c’è nemmeno una parola in malafede, in questo intervento. E neppure una eccessivamente parziale. Questo perché mi è sempre riuscito di essere, rispetto a Rodolfo e alla sua musica, contemporaneamente, uno dei suoi più grandi fan e uno dei suoi più duri critici (se non considerate i critici con la bava alla bocca). Bisognerebbe mettersi d’accordo sul senso di quel “grande” (che razza di post, eh? Mai che si possa prendere una parola per buona, senza doverne conquistare il senso a forza di puntualizzazioni e chiarimenti). Di sicuro non importante (va da sé) e nemmeno utile. Immagino che l’interessato negherebbe, se interrogato a proposito, ma sarebbe una semplice cortesia. Non sono un solido abruzzese, capace di mettere in piedi una sala d’incisione casalinga, reinventarsi tecnico del suono, saltare a piè pari, quando necessario, mezza Europa per dare il proprio contributo. Non sono un personaggio disgraziatamente incline a farsi fregare dalle filosofie spicce sul mangiare e sul coltivare lentamente, ma rapido come una scheggia quando si tratta di inventare una trovata o un arrangiamento. Non sono qualcuno capace di farsi perdonare angherie e violenze giusto per il rotto della cuffia, mettendo una voce così che tocca determinate corde, in quel modo lì, che fa risuonare il testo con quella forza. Non sono uno di quegli spettatori tanto assidui da meritarsi una medaglia per ogni presenza, come fossero scout, e che possono consolarsi con il titolo di spalla buona per ogni occasione e di mascotte ufficiale. Con me niente adorabili chiome rosse tra le prime file giù dal palco. E vi posso assicurare che le mie gambe non farebbero una bella figura, in calze scure. La mia limitata rete di conoscenze sociali non prevede nemmeno qualcuno che possa fare le mie veci, in questo. Lo avrete capito, l’apporto che posso dare, dopo tutti questi depennamenti, non riuscirebbe mai e poi mai ad essere mai davvero utile. Le mie presenze ai concerti sono tutto sommato rare. Certo, la scusante del trasporto. Evitarla non è semplice: poche cose, al mondo, sono mortificanti come andare a un concerto quando è l’artista stesso a dovervi passare a prendere. Delle volte si fa spallucce, perché perdere l’occasione è un peccato ancora più grande, ma un minimo di decenza va conservata. Ho contribuito a preparare qualche scaletta ma sfatiamo un mito: le scalette non sono davvero qualcosa di così importante. Gli artisti perdono spesso il senso della misura, su questo, a volte per scaramanzia, credo. Ho avuto un ruolo nella modifica di un paio di versi, in modo diretto o indiretto. In un caso questo ha portato alla sostituzione di una frase davvero troppo banale con una più sensata, capace, all’interno della canzone, di guadagnarsi uno spessore particolare. Ma niente di più.

Svolgimento.

Dice che “Trieste” è, in un certo senso, la canzone che ha avuto più successo. Che si è conquistata un pubblico e un apprezzamento più esteso, al di fuori del solito giro. Non mi sorprende. “Trieste”, all’interno della sua musica, fa parte della categoria “canzone-empatia”, così come “Abitudini” e “Figuranti”, giusto per fare un paio di esempi. Empatia, in questo caso, intesa non nel senso largamente positivo richiamato prima; un tipo di empatia meno vibrante, più semplice e di maniera (a patto di non dare a questa connotazione un tono eccessivamente negativo) e per questo capace di arrivare forte e chiaro a un numero maggiore di persone, anche quelle che non sarebbero disposte a investire una maggiore attenzione e partecipazione per cogliere un tipo di empatia più complesso.

Intermezzo n.1

Un particolare davvero divertente della produzione artistica di Rodolfo è la possibilità di raccogliere le canzoni in una serie di categorie con denominazioni buffe. Questo è vero, in piccola parte, per quasi tutti gli artisti, ma in questo caso riesce più facile. Le canzoni-empatia, già detto. Poi ci sono le canzoni-artistiche, in cui il valore letterario del testo acquista una centralità soverchiante, ed è forse il vero obiettivo dell’intera canzone. “Hansel”, “Ottobre”, “L’Orchesta del Titanic”. Le canzoni-goliardata, utili a rompere il ghiaccio o alleggerire delle tensioni nei concerti, che hanno gioco facile a far divertire la maggior parte degli spettatori, ma che vanno al di là di questa dimensione, hanno un senso e una serietà, sotto la patina di ironia, che se ne stanno tranquille, e si svelano, qualche momento dopo, a cui voglia coglierle. “Il Novanta per Cento”, la “Bourbonnaise”, “Precaria”, “La libertà. Senza tante menate”. Le canzoni d’amore atipiche. Le canzoni a doppio strato che riescono a parlare ad ogni ascoltatore ma nascondono, alla luce del loro legame con esperienze personali, un senso più intimo e profondo percepibile solo a una piccola cerchia di persone. Le canzoni-tenui. Garbate, intime. “Ci sono persone”, “Canzone misogina n.2”, “Orfei”. Certo, rimangono le canzoni difficili da inquadrare (“Silvia”) e quelle che appartengono a più di una categoria.

Dicevamo, del successo di “Trieste”. Sarebbe sciocco lamentarsi di quanto sia ingiusto che questa sorte sia capitata a “Trieste” e non a canzoni migliori.

Ah-ehm, Intermezzo n. 2 (scusate l’interruzione).

Le mie tre canzoni preferite, in ordine, di Rodolfo Toè, dovesse interessarvi:

1) “Hansel. La maturità”

2) “Ottobre”

3) “Silvia”

Una menzione particolare per “Avevo” e “Il Baluardo”, che non sono riuscite ad entrare in classifica.

Sarebbe sciocco perché lo sanno tutti, che va così. Le canzoni più conosciute non sono quasi mai le migliori, di un artista. Sarebbe sciocco, perché “Trieste” è comunque un’ottima canzone.

Daje, de novo. Intermezzo n.3

Le tre canzoni che apprezzo di meno, nel suo repertorio:

1) “I Preti”

2) “Barbera”

3) “I Papaveri”.

Dicevamo, è un’ottima canzone. Musicalmente decisamente valida, con un piacevole leit motiv che ti accompagna lungo tutta la canzone, attraverso le diverse emozioni che traspaiono nei diversi momenti del cantato. Una linea di continuità e di coerenza. La linea del sentimento, se vogliamo fare gli enfatici, che si conserva e si difende dalle condizioni del momento, dalle diverse emotività quotidiane. Il filo conduttore che ha l’accortezza di sistemarsi quando necessario sullo sfondo e lasciare lo spazio ai suoni elettrici e distorti. Un arrangiamento decisamente efficace, come d’abitudine, nel mettere in risalto le qualità musicali del pezzo. Il risultato è l’ormai classica capacità di suonare familiare e rassicurante, alla luce delle molte influenze di cui è debitore, senza però rimandare a un’unica assonanza precisa, evitando così la critica di un difetto di originalità (in questa canzone, nello specifico, c’è qualcosa degli Offlaga Disco Pax). Forse, l’unica pecca dal punto di vista musicale è l’assenza di un “momento concentrato di coinvolgimento estetico”, l’elemento più caratteristico della musica di Rodolfo, più dei validi arrangiamenti o delle melodie piacevoli. Una sua qualità è quella di sfornare sottofondi musicali in profonda sintonia con le atmosfere ricreate dal testo. Chiunque abbia un discreto bagaglio di conoscenza musicale sa che questo, purtroppo, non è così diffuso come sarebbe lecito aspettarsi. E, visto che è normale pensare che una capacità del genere vada collegata a un certo livello di esperienza “artigianale” e di maturità esistenziale, va sicuramente riconosciuto il merito, all’artista, di saperla manifestare già in una fase così precoce della sua carriera. Ma in cosa consiste, di preciso, il tocco di cui parlavo prima? In più di una sua canzone sono presenti dei singoli momenti, brevi (dieci, quindici, venti secondi), completamente coinvolgenti, capaci di donare un appagamento estetico, di catturare totalmente l’attenzione dell’ascoltatore e immergerlo con forza nel pathos del pezzo. Se non avevi ancora capito di cosa parlasse davvero la canzone, ora hai avuto un’illuminazione. Se già ne avevi capito il senso, ora hai superato quel livello, ora lo vivi. È come toccare il nocciolo della canzone, il suo cuore pulsante, e quasi il testo e il resto della musica non aggiungono altro.

Intermezzo n.4

Per quanto mi riguarda, l’esempio più lampante di questa “esperienza estetica” si trova in “Silvia” (e spiace non citare quello di “Ottobre”). Tra l’1:06 e l’1:16. Undici secondi, annunciati da tre armonici. La melodia è presente anche in altri momenti della canzone, ma in questa parte sfrutta appieno le sue potenzialità. È un ballo, come confermato dal verso subito successivo. Un ballo classico, ma con le sonorità dolciastre del folk. Le corde, garbate, vi accompagnano nei giri che dovete essere in grado di far fare alla vostra partner. Una concessione davvero generosa, a voi che non siete mai stati particolarmente dotati, nel far ballare una donna. Avete tra le mani Silvia, afferrata ora per le dita, ora per un fianco, ora per una porzione di schiena, e la guardate con gli occhi del narratore. È così bella, e desiderabile, Silvia. Farla volteggiare per la stanza è un vero piacere, e lei lo sa. Ma lo sa nel modo sbagliato. Per lei è il piacere standard che prova l’uomo a far ballare una donna. Vi guarda in quel punto tra mento e spalla e vi concede un sorriso accennato non troppo intelligente. Perché non è un sorriso per voi, in quel momento, nella sala in cui vi trovate, accompagnati da quella canzone. Momento, sala, canzone, uomo sono solo dettagli da inserire negli spazi standard di un modulo prestampato. Mettervi una firma rende creditori di una prestazione. Giravolte per cinque minuti accompagnate da un sorriso che abbia almeno l’angolazione minima richiesta x e la durata y. Prima che la band canti tre ultime canzoni, lei vi avrà rinnegato con tre nuovi cavalieri, dicendosi di non conoscervi. Durante il ballo i vostri sguardi non riescono mai ad incontrarsi. Il suo, assente, starà attento a posarsi su punti poco impegnativi; il vostro si caricherà di risentimento, perché il senso che volevate imprimere in queste tre mosse stupide a cui vi siete costretti non è stato riconosciuto.

Tutto questo non sta (tanto) nelle parole del testo. È in quegli undici secondi.

Riprendiamo di nuovo le fila. Dicevamo? “Trieste” è una bella canzone (ma guarda che caso, quante volte l’ho già ripetuto?). Certo, manca l’impronta più caratteristica, il momento migliore, della musica dell’artista. Il testo conquista nella misura in cui può essere preso nella sua accezione più banale. Perché quindi non è un male il successo di questa canzone? Perché ci sono tre versi, nel testo, che sono un esempio chiarissimo del talento dell’artista, e la pubblicità migliore al dono più importante che possa farvi: l’empatia orizzontale a cui accennavamo prima. E rendono chiaro un punto: nonostante la sua formazione, le sue prime esperienze e, credo, le sue aspirazioni, Rodolfo Toè non è un poeta, nelle sue canzoni. È un narratore, ed è in questo campo che raggiunge livelli davvero significativi.

“Se non altro ci promettiamo che troveremo un modo”. Chiunque abbia mai vissuto un rapporto a distanza sa che questa, immancabilmente, è la frase con cui ci si accomiata. Trovare un modo è un’espressione dalla genericità opprimente. Rimane aperta all’imprevedibilità del vivere, flessibile e duttile agli spazi che le diverse situazioni le permettono di occupare. Rimane talmente vaga da lasciare intendere che quel modo non sia poi più afferrabile di una cometa, più verosimile di una chimera: lascia aperta l’eventualità che quel modo sia la consolante bandiera dell’impossibilità, e della mancanza di colpa, da poter sventolare in faccia alla sconfitta. “Troveremo un modo” è il mantra che si ripetono gli amanti, concedendosi in questo rosario un tono sempre diverso. Lo si può recitare fitto fitto, ripetuto molte volte di fila, velocemente, senza soffermarsi su nessuna parola. È un esorcismo contro la paura. Lo si può pronunciare nel modo opposto, una volta sola, inesorabile, ogni parola ben messa in risalto, le prime lettere con una certa forza ed il resto della parola che scorre in una dolcezza crescente. Nel farlo, la cosa migliore è afferrare una ciocca di capelli della ragazza, lisciarsela tra le dita, e rimetterla al suo posto, ordinata dietro il lembo dell’orecchio. È la frase ad effetto dell’eroe, tutto andrà a posto, tutto sarà riportato nel suo giusto ordine, fidati. Lo si può ripetere a turno, uno sulla faccia dell’altro, sputato nell’enorme sorriso con cui veniamo ricambiati. Qui, di nuovo veloci e con una risata un filo troppo squillante, un filo troppo vacua. Non ci sono paure e non c’è nemmeno bisogno di ordine o di eroismi. I timori riposano sotto i tappeti. Nei casi più complicati, è un’arma che può imbracciare chi, dei due, si trova dalla parte dei buoni. A voler essere sgradevoli, lo si trova sempre, il vero colpevole. Chi se ne va più lontano, chi se ne va per più tempo, chi prende una strada che rende meno compatibili i giorni a venire. Questa frase viene brandita con decisione, sbottando. Discorso chiuso, sarà quel che sarà, cerchiamo di appenderci a questo modo. Va da sé che trovarlo spetta principalmente all’altro. È lui quello nel torto.

“E se non altro potremo esibire la felicità di mancarci ogni giorno”. Anche in questo caso, probabilmente sapete di che si tratta. Parlavo di esorcismo, prima. Questo, quando è successo, quando si è separati, è l’esorcismo più grande. Ripetersi sempre quanto ci si è mancati, nel tempo passato dall’ultima volta che ci si è sentiti. Confermarsi a vicenda, lisciando ognuno il senso di mancanza dell’altro, che ha ancora un senso, che ce la si può fare. La mossa migliore è buttare lì, ma senza enfasi, infilandoli qui e lì nel discorso, dei piccoli esempi di situazioni particolari. Non troppo romantici (subentrerebbero il rimpianto e la malinconia). Qualcosa dotato di un suo piccolo fascino sghembo. Qualcosa di indie. E il giorno dopo, mentre siete in giro per le vostre città diverse, raccoglietene di nuovo altre, di queste situazioni, come foglie da infilare tra i libri, e far seccare finché arriva il momento buono. Finché è il momento di ripetere questa recita a due. Celebrare la felicità del mancarsi, fingere di trovare il piacere nel dolore. Come continuare a schiacciare un ematoma con la punta delle dita, mentre questo nei giorni assume sfumature diverse.

“…per quando saremo normali, per quando saremo due estranei”. (censuriamo la parte sugli aborti spontanei. Anch’io, che ho una sfilza di indizi sull’assoluta buona fede, non riesco a non considerarlo un passaggio ruffiano e di maniera.) Riassunto, in due righe, il problema con cui molti devono fare i conti, nei loro rapporti personali. L’unico modo, per far sì che una relazione continui, è rimanere estranei. È questa, la normalità, e se molti si ritrovano da soli, possono maledire la propria incapacità di accettare questa estraneità. Il loro desiderare ed aspirare ad altro, di più, per poi ritrovarsi con niente. Sono capaci di uscirsene con un “Quella coppia, diavolo, non so come facciano. Sembra che non conoscano niente uno dell’altro! E stanno insieme da quarant’anni”. Detto come se fosse un ossimoro. Non riescono ad arrendersi al fatto che la strategia migliore sia quella di collezionare un certo numero di estraneità diverse, conservarle tali, senza mai superare il segno, incastonarle in un quadro armonioso. Una rete di persone che vivono insieme e non sanno nulla l’una dell’altra. È ancora qualcosa che non riescono ad accettare. Nel frattempo, si ritrovano soli.

La forza di questi tre versi è amplificata dal modo in cui vengono urlati. L’artista ha parlato del senso di liberazione provata, durante la loro registrazione. Sarà, ma l’impatto che rendono è (fortunatamente) tutt’altro. L’urlo più trattenuto, impostato, che si possa immaginare. Non l’urlo liberatorio, l’urlo dei nervi che cedono. Il massimo dell’urlo che una persona normale possa quotidianamente concedersi, circondata com’è da altre persone, obbligata com’è a dedicarsi alle attività necessarie.

Una curiosità che vale la pena notare: la strofa si fonda tutta sul “e se non altro”. Pensandoci un attimo, è l’esatto opposto del “ma anche”, dell’idea che la realtà sia bella e varia, ma che possa essere tenuta insieme, che le grandi tradizioni abbiano ancora da dare qualcosa all’uomo e che possano perfino convivere, che sia tutto un bel banchetto imbastito e ci si possa servire a piacere. Prendere le cose migliori e metterle insieme. Nel “se non altro” le tinte sono l’opposto. Quel poco di buono che si può ricavare è frammentato, ce lo si deve godere per quello che è, quando capita, finché dura. Non lo si ottiene allungando la mano e prendendolo semplicemente, lo si deve conquistare, strappandolo a quanto di doloroso vi si ritrova attaccato. Lo si conquista, soprattutto, a forza delle cecità che ci imponiamo.

Il rammarico da confessare.

Tra tutte le critiche che ho rivolto, in vari momenti, alla musica di questo artista, una è stata particolarmente ingiusta. Fatta in buona fede, si intende, ma eccessiva e in un certo senso sbagliata. Non in quello che è il suo senso oggettivo. Da questo punto di vista rimane fondata: prendete 8 o 10 o 12 canzoni. Mettetele insieme. Per quanto la vostra scelta sia ponderata e attenta, il risultato che ne ricaverete non sarà mai qualcosa di omogeneo. Questo presunto album che vi siete costruiti è una raccolta di belle canzoni, che vi piace ascoltare, ma non ha una coerenza interna sufficiente a qualificarlo come un vero e proprio album, come un’opera incarnante idee e stili coerenti. Ma, nel formulare questa critica, nella mia testa, la mancanza di organicità era da intendersi anche come mancanza di una vera poetica. Come se quelle canzoni potessero benissimo appartenere ad una pluralità di artisti e la comune paternità non fosse automaticamente riconoscibile. In questo ho completamente sbagliato e ho impiegato molto tempo, ad accorgermene. Una poetica toeiana esiste, è forte, coerente, ispirata e la si può notare con maggiore evidenza nella canzone “Novembre, gli ultimi giorni prima del diluvio”. So cosa pensate: che bel giochino scemo e divertente, voler cercare i tratti più significativi della produzione di un artista in una sua canzone tutto sommato secondaria. Ma in questa canzone gli ingredienti della sua musica sono messi più in evidenza, e palesi all’orecchio di chi si dedichi all’ascolto con una certa attenzione. Rodolfo Toè inserisce, nei propri testi, parole-totem, pesanti ed ingombranti: Dio, morte, dolore, noia, maturità, ovviamente amore. Ma le sgonfia e le desacralizza: Dio è un povero cristo (gioco di parole involontario), di cui l’uomo può benissimo fare a meno, anche perché, quando si presenta, combina disastri come se si trattasse di un gioco per sfuggire alla noia. Il dolore non è poi tutta questa gran cosa: è una condizione a cui ci si può abituare senza troppi sforzi. L’amore è un incastro di trucchetti e scaramucce, molto raramente qualcosa di più di una collezione di cazzate. Questo doppio movimento (elevare la propria musica tirando in ballo grandi temi; affossare i grandi temi inserendoli nella propria musica), che si riduce nella pratica ad uno sgonfiamento, è gestito attraverso una tattica linguistica che ci si aspetterebbe produrre un risultato contrario: la citazione e il riferimento a mitologie, grandi narrazioni, la Bibbia. La canzone contiene inoltre il più importante manifesto programmatico dell’autore (molto più di quanto non faccia “La libertà. Senza tante menate”): “oggi smetteremo di credere, di rifletterci nelle persone”. Non è una musica per la gente, questa. E d’altronde chi l’hai mai vista, questa “gente”? Chi c’ha mai avuto a che fare? Chi vorrebbe averci a che fare? Senza voler essere enfatici, credo di poter dire che Rodolfo e io siamo sempre stati capaci di riconoscere il pensiero dell’altro. Di concedergli sempre il pregio, o almeno la scusante, della buonafede. Di accettare l’incombenza di prendersi un momento per sondare le ragioni di determinate prese di posizione dell’altro, di indagare tutte le premesse che ne facevano da genesi. In tutto questo però finiamo, molto spesso, per trovarci su convinzioni e idee molto lontane, a volte difficilmente compatibili. Se c’è qualcosa che ci ha sempre accomunato, questa è l’allergia, a volte posata, a volte viscerale, per l’umanità, la società, l’universalità, soprattutto quando sono tirate in ballo come categorie esplicative. Cercando di ricalcare, un po’ goffi, i passi di tanti venerati maestri, ci siamo riproposti di riconoscere la dimensione privata della Storia e dei suoi fenomeni. Di guardare alla persona, di fuggire dai plurali. Sempre convinti che gli elementi del reale si qualificassero e si potessero capire sulla base di ciò che li rendeva unici, che li differenziava da tutto quello che li circondava. Immagino che alcuni tra i suoi ultimi post abbiano spiazzato parecchi, e li abbiano anche fatti indignare, magari. Sono convinto che la ragione sia questa “filosofia di fondo” dell’autore; le persone che si sono scandalizzate, con ogni probabilità, hanno preso per politico ciò che invece era, a ragion veduta, esistenziale.

“Novembre” è significativa anche nel chiarire una volta per tutte le influenze musicali dell’artista. E qui bisogna riconoscere che Rodolfo Toè ha compiuto la truffa del secolo, vi ha fregato tutti. Vi siete persi a puntualizzare come “Il Novanta per Cento” sia una roba tirata fuori da Guccini, niente di più che una macchietta de “L’Avvelenata”. Magari avete osservato (giustamente –in fondo questa è un’idea mia, e mi permetto di mettervela in bocca) come “Avevo” sia il lato oscuro di “Buonanotte, fiorellino”: la stessa nenia cullante (nonostante le distorsioni) da cui sia stata tolta ogni traccia di dolce e che abbia da offrirci l’agro rimasto. Vi siete ripetuti come il modo in cui i primi due-tre versi di “Hansel” sono cantati ricorda proprio De Andrè, e del resto anche le atmosfere della canzone hanno qualcosa di suo. Beh, fregati. Leggere le canzoni di Rodolfo attraverso la lente del cantautorato italiano è stupido oltre ogni limite. E a ricordarvelo è la chitarra di “Novembre”, con tutte le suggestioni, musicali e letterarie, che si porta dietro. Una chitarra essenzialmente rurale. Ma che non ha nulla a che vedere con la ruralità nella musica italiana, che è sempre, immancabilmente, una ruralità ideologica, macchiettistica, la celebrazione della “vittoria nonostante tutto, nonostante ogni apparenza”, della vittoria morale. La narrativa toeiana è quella dei “perdenti nonostante tutto”. E se scomodare Johnny Cash sarebbe ridicolo (non tanto per distanze qualitative, quanto per impossibilità oggettive), è nel solco da lui creato che bisogna cercare i numi tutelari della musica che state ascoltando, le pietre di paragone con cui poter inquadrare e capire. La musica di Toè è vicina ed è parente di quella di Warren Zevon, di Ry Cooder, dei gruppi alt-country più recenti, primi tra tutti “The Mountain Goats”.

Infine, “Novembre” è importante per una parola, la vera chiave di volta della poetica dell’autore. Dove per alcuni c’era il “fanciullino”, o “l’ideale dell’ostrica”, per Rodolfo Toè ci sono gli anfibi. I personaggi si ritrovano a vivere in un limbo incastrato tra dell’acqua stagnante, uno strato abbondante di fango, un incipit di terra. Sono sconfitti, guardati con un po’ disgusto, rimasti ad uno stadio larvale dell’evoluzione. Nonostante siano stati loro, spesso, a permettere l’inizio di tutto. Riescono a sopravvivere solo accettando la propria condizione, imparando che i cambiamenti che possono arrivare sfoceranno inevitabilmente nel peggio, anticipandoli con mutazioni che sappiano metterli al riparo. Mettono su nuovi sistemi respiratori che li tengano in piedi nel nuovo ambiente. Si tengono ben strette addosso le branchie, guardate da tutti come un anacronismo ridicolo, sicuri che torneranno loro utili, in futuro. Nel futuro in cui potranno gustarsi l’unica risata per loro possibile, quella accompagnata da qualche goffa sguazzata, mentre i grandi annegano.

Quindi, per finire: sapete forse indicarmi qualcuno, nella musica indipendente italiana, che possa vantare, fin dall’inizio della sua carriera, tante frecce al suo arco? Immagino di no, ed allora: RT, ritwittate, andate e ditelo alle montagne.

P.s.: se non dovesse avervi convinto tutto quello elencato sopra, vi lascio con un ultimo aneddoto-simpatia. Al momento Rodolfo Toè è la più grande fabbrica vivente e operativa, al mondo, di epitaffi. Se, per me, non avessi già definitivamente scelto (questa è una comunicazione ufficiale. Chi di dovere se lo segni, e provveda, quando sarà il caso.) il borioso “Avrebbe potuto, se avesse voluto. Ma non gli è sembrato il caso di volere” allora prenderei seriamente in considerazione:

  • il poetico “Non serve rimanere, così a mezz’asta, tramontare come alle sere”;
  • il sarcastico (e leggermente modificato) “Noterete la mia assenza?”;
  • il monito “Non riesco ad immaginarmi un futuro migliore”;
  • l’assolutorio (e leggermente modificato) “Si è portato dentro il suo verme da vero signore”;
  • l’atto di cortesia per i vermi (leggermente modificato) “Nel mio petto voglio il timo”;
  • l’altezzoso (o sincero?) “Non c’è nulla che io ami, non c’è niente che mi piaccia.”;
  • il divertente “Mi han detto di stare qui ed aspettare”;
  • il riassuntivo “Una vita inquieta e silenziosa”;
  • l’auto-assolutorio “Non imploro perdono per le impronte lasciate”;
  • il riconoscente “Grazie per questa mia, ed è anche troppa, importanza”;
  • il franco “E più della memoria ora è paura. E la tristezza come per qualcosa che pian piano si perde”.

giovedì 5 maggio 2011

Con me hai chiuso *schiaffo*

Con Internazionale ho un rapporto di amore e odio. Va detto che non è in fondo nemmeno colpa di Internazionale. C'entrano più che altro molti dei lettori di Internazionale che ho conosciuto. La maggior parte. Gente convinta che Internazionale sia il bene, il salvatore della stampa italiana. Che chi legge Internazionale (loro, ndr) sia informato sul mondo.

Internazionale è un buon giornale, tutto sommato. Certo, totalmente inadeguato a svolgere il compito di riproporre il meglio della stampa internazionale della settimana, di dare una visione approfondita e il più possibile completa di quanto sia successo nel mondo in quel periodo. Non so quanto si possa criticare il giornale per questo: ho sempre avuto l'impressione che questi compiti glieli abbiano attribuiti i suoi lettori più che essere in sé la missione della redazione.
C'è il problema della parzialità. Senza entrare in dispute filosofiche sul senso e sulla possibilità dell'oggettività, gli articoli sono selezionati sulla base di determinate idee e visioni del mondo. Non è un male, anche perché in genere la redazione riesce a far sì che la parzialità non si trasformi in faziosità. Trovo però sconvolgente come molti non riescano a coglierla, questa posizione. E parte della santificazione di cui il giornale gode passa anche per questa incapacità.
Internazionale è per buona parte inutile. La maggior parte del suo bacino di utenza ha le capacità, i modi e gli stimoli per raggiungere il meglio della stampa internazionale da sé, e di fruirne in inglese, o in altre lingue. Basta avere un account di Twitter e l'accortezza di seguire i contatti giusti (quelli ufficiali di determinati organi di stampa, quelli personali di alcuni giornalisti, i blogger più influenti) per usufruire di un simile servizio gratuitamente, in maniera più completa ed immediata. Internazionale conserva una sua funzione sulla base di: pigrizia, desiderio di colmare i vuoti lasciati dalla mancata conoscenza di determinate lingue, paura di essersi lasciati sfuggire qualcosa. Non molto, in fondo.
Per cui, questa è una fase in cui l'odio ha superato l'amore. Ho smesso di acquistarlo da un po', visto che ultimamente lo facevo giusto per le recensioni di libri e album. Oggi credo che questa scelta sia diventata definitiva. L'account Twitter di Internazionale ha linkato un articolo che si lancia in una difesa dei piccioni. I piccioni! Il nemico!

domenica 1 maggio 2011

Freedom of eating

E' un po' patetico citarlo per due giorni di fila, ma. Il primo maggio. Questo primo maggio. Con tutte le cose implicate: il dibattito sul senso e sui modi del manifestare pubblico; i contenuti, oltre che le forme, della giustizia sociale; l'uguaglianza come e perché; le parole-chiave che prima erano grandi processi e grandi narrative, e poi si sono trasformate in bandiere, fino a ritrovarsi slogan stantii.

Questo giorno Perle ai Porci -dall'altra parte del mondo, veramente dall'altra parte del mondo, non solo geograficamente- se ne esce con questa vignetta. E io non ho più parole, per celebrarlo.

sabato 30 aprile 2011

Se avete perso

L'ultima lezione di Diplomazia.

giovedì 28 aprile 2011

Macchie della storia

Chinaglia si è ben guardato dal giocare nel Frosinone, ma non si è fatto problemi a finire nei New York Cosmos.

mercoledì 27 aprile 2011

Necrologi e arringhe.

Ormai ci sono più parole di Zadie Smith che mie, qui. Ma questa volta è per avvisare che ho raggiunto il livello ultimo di ossessione per un autore. Non ci sarebbe bisogno di ricordare che questo livello non può, giocoforza, essere oggettivo. Non è quindi quando compri l'ultimo libro mancante, e hai tutto quello che è stato pubblicato in italiano di suo. Non è quando hai letto tutto quello che è stato ecc. ecc. (anche perché a me manca qualche centinaio di pagine, per arrivarci). Non è nemmeno quando inizi a prendere in seria considerazione di procurarti, di qualche opera, la versione in lingua originale per scoprire com'è veramente, originariamente, quel passo che hai tanto amato, per il tuo piacere personale (soprattutto se sei in attesa che esca qualcosa di nuovo) e per un'idea sgangherata di rispetto per l'autore.

E' quindi qualcosa di soggettivo. Ma anche qui ci sono parecchi gradi. Non è quando scopri che in quella frase o in quel passaggio l'autore/trice ha espresso esattamente quello che pensi tu, riguardo l'argomento in questione, in un modo così chiaro e preciso che a te non sarebbe mai riuscito (non si può dire più correttamente di così, cit.). O quando addirittura lo dice con le parole che useresti tu (che credi useresti tu). E non cambia niente quando in questo giochino raggiungi i cento punti. Non è nemmeno quello. Non è quando (inizia ad essere irritante, ma seguitemi ancora un attimo) ti capita di sentire, per qualche personaggio, un grado di preoccupazione, di ansia e di empatia più grande di quanto ti sia mai capitato per un numero non indifferente di persone reali che conosci. Di persone a cui vuoi bene, perfino!

E' quando ti ritrovi convinto che quello, la persona in quel determinato passaggio, sei tu. Non è un pensiero che hai avuto. Nemmeno il pensiero più importante che tu abbia mai avuto. Non la tua idea del mondo, la tua filosofia, la tua ideologia. Non una persona che ti sembra più vera del vero, e qualcuno a cui ti affezioni, e che se potessi ti ci aggrapperesti di peso, con egoismo, per trattenerlo nella tua vita più a lungo possibile. Sei tu. L'autore ha messo te in un suo libro. Se riuscissi a recuperare almeno un briciolo di ragionevolezza, in tutta questa follia, potresti laicamente rallegrarti all'idea che in una piccola sfaccettatura, in un momento, l'autore sia stato così simile a te. Oppure che quel genere di persona, il genere di persona che tu sei, ha fatto breccia tra le sue conoscenze, le sue amicizie, ne ha fatto esperienza, ed eccola rielaborata su pagina. Potresti goderti la convinzione -ora assolutamente provata- che in altre circostanze saresti potuto perfino essere amico di questo autore. Ma non lo fai. E' il culmine dell'esaltazione e non è ammessa nessuna forma di scetticismo e nessuna concessione al buonsenso. Quello sei tu.

(visto che ormai nessun piacere è più pieno e perfetto -ah, i buoni piaceri di una volta- arriva il lato amaro di questa rivelazione. Ripensi alle occasioni in cui, di queste epifanie, sei stato testimone. Quando è capitato ad altri, con altri autori. Ti torna in mente tutto il fastidio -e quella punta di disprezzo- che hai provato. Te ne penti, sinceramente.)

"Il minimo che può fare, al cospetto di quel genere di autentiche palle (le palle di chi si è suicidato, ndb. Corsivo già presente nel testo), è diventare egli stesso una persona di peso. Alla rotatoria, in attesa del momento opportuno per attraversare, Alex cerca di immaginare il discorso che potrebbe pronunciare in propria difesa se la sua vita fosse messa sotto accusa, se cioè fosse costretto a dimostrare di valere qualcosa. E' una specie di testo immaginario che si porta sempre dietro, assieme al proprio necrologio, perché da qualche parte nella testa di Alex egli è la persona più grande e famosa mai vissuta su questa terra. E in quanto tale, deve difendersi dalla maldicenza non meno che dall'oblio. Chi potrebbe farlo, altrimenti? In fin dei conti, Alex non ha fan."

Zadie Smith ne "L'uomo autografo".

venerdì 15 aprile 2011

Una corona per ogni menestrello

Nell'ultima settimana sulla stampa internazionale è tornato in auge il tema del ruolo pubblico ed etico dell'artista. Non tanto per un rilancio del dibattito teorico su quale sia, o debba essere, questo ruolo, quanto piuttosto una grande enfasi su una manciata di casi concreti e di polemiche. Dei concerti cinesi di Dylan e della sua accettazione di una (ancora difficile capire se effettiva o presunta) censura da parte della autorità della scaletta si è occupata in pratica tutta la stampa anglosassone. L'edizione inglese dello Spiegel ha invece pubblicato una lunga intervista all'architetto Meinhard von Gerkan. In entrambi i casi, si parla di Cina - una buona dose della mia obiettività va a farsi friggere.

Per chiudere la questione Dylan sarebbe più che sufficiente richiamare un intervento su un blog del Guardian. Quello che scrive Jonathan Jones merita di essere letto fino in fondo, ma già alcune frasi del primo capoverso rispondono più che a dovere a tutte le polemiche nate. "What a lot of nonsense: if you thought Dylan would ever take an obvious political line you haven't been following him carefully enough." "It's understandable for human-rights campaigners to wish for public support from Dylan. It is obtuse, however, for them to suggest that he is somehow betraying his own values as a political songwriter by not protesting."

L'intervista di von Gerkan merita invece un numero maggiore di citazioni. In parte perché è lecito credere che abbiamo avuto minore diffusione degli articoli su Dylan; in parte perché quello che l'architetto dice -non sempre in modo posato e lucido, a tratti spazientito dall'intervistatore- è spesso condivisibile e sempre interessante; in parte infine perché l'intervista nel suo insieme è un buon esempio di qualcosa che penso da molto ma che generalmente è difficile sostenere a dovere: se siamo sempre pronti a deprecare lo scarso servizio offerto da giornalisti ed interviste eccessivamente timidi e assoggettati, bisognerebbe al tempo stesso rivedere l'idea del giornalista come un cane ringhioso, che fa il suo dovere solo se si arma di insistenza oltre ogni limite, rifiuto sprezzante di ogni assoggettamento all'intervistato, una buona dose di malizia.

Alcune frasi di von Gerkan:

"Instead of bringing calm to the situation, actions like Ai's arrest will only incite the protesters even further. I don't understand the Chinese in this regard."
"There is no question that there are still many deplorable incidents, but one thing is clear: never in Chinese history has there been this much freedom for the individual."
"Willy Brandt said that change is possible through rapprochement, not through embargoes."
"Believe me, there is a big difference between East Germany and today's China. I experienced the East German system up close, because I studied in Berlin. What i experienced at the time -the level of inhuman behavior- doesn't exist in China by a long shot."
"Based on that argument, one would have to conclude that no one should be allowed to build in Germany anymore, either. Germany as a whole is contaminated."
"This idea of only wanting to work for private individuals is absurd. In a country like China, where does private end and where does government-owned begin?"
"You shouldn't overestimate the social role and function of an architect -even when he plays a somewhat bigger role in the public's perception, as I do. An architect has a limited ability to influence things."
"But it's also erroneous to say that the architect must realize his potential in every building. Architect must primarily react to the location."
"In the case of the National Museum in Beijing, the changes were part of a discursive process."

Quando si arriva al ruolo pubblico o sociale degli artisti, si sta un attimo a farsi fuorviare. Quelli che sostengono che questo ruolo sociale esista, e che molto spesso si sentono in diritto di giudicare se e come questo sia stato rispettato, lo fanno generalmente sulla base di uno di questi due ragionamenti. Possono essere convinti che un simile ruolo morale lo abbia ognuno, ogni persona. Oppure possono essere convinti che gli artisti abbiano questo ruolo proprio per la loro attività o visibilità, e che sia appunto questo aspetto ad assegnare loro un dovere che le persone comuni non hanno. In entrambi i casi, ci si sbaglia di grosso.

Nel primo, è più che lecito sospettare di trovarsi davanti ad un giacobino. Qualcuno che crede di aver trovato -senza possibilità di errore- quelle virtù morali che sono non semplicemente auspicabili o apprezzabili ma doverose e pretendibili. Chi non le manifesti o non le eserciti commette a tutti gli effetti un peccato od un reato -nei migliori dei casi dovrà essere chiamato a renderne conto, nel peggiore costretto a farne pubblica ammenda e rieducato, perché non accada nuovamente. Il perché si pretenda la mobilitazione morale di massa ha molto a che fare con un concetto di lunga data che da qualche decennio viene immancabilmente espresso con un verso di De André: "Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti." Balle. Davvero, balle, balle, balle. Non tutti sono immancabilmente coinvolti in ogni caso, qualunque cosa succeda, qualunque siano i diversi elementi delle diverse situazioni. Le responsabilità bisognerebbe stare attenti a maneggiarle, e ancora di più ad affibbiarle. Se qualcuno se le vuole assumere di suo conto, fantastico, ma nel momento in cui si voglia invece affibbiarle, bisognerebbe usare tutte le premure e precauzioni possibili.

Nel secondo, ci troviamo di fronte ad una mania abbastanza diffusa. Le persone pubbliche, soprattutto se si tratta di attori, scrittori, musicisti, finiscono sepolte sotto una marea di doveri che abbiamo deciso unilateralmente di assegnare loro. C'entra la falsa prospettiva da cui le guardiamo, per cui finiamo per spogliarle dei normali elementi di umanità che proviamo per chiunque altro ci stia vicino. C'entra il modo in cui avvertiamo i mille privilegi che attribuiamo loro -in parte questi privilegi ci sono, in parte li ingigantiamo, in parte non siamo minimamente disposti a considerare i molti svantaggi che costituiscono l'altro lato della medaglia. Un artista in realtà ha, nei confronti del proprio pubblico, ben pochi doveri. Pubblica un'opera e la condivide con il pubblico, con chi si dimostra disponibile a leggerla, vederla, ascoltarla. La decisione di leggerla, vederla, ecc. è presa di propria spontanea iniziativa da chi ne usufruisce -senza alcuna costrizione dell'artista. Questo artista ricava (al giorno d'oggi: per quanto possibile) un compenso per l'aver impiegato le proprie capacità nella produzione di un'opera. Se l'opera si rivela essere di basso valore, chi ne entra in contatto non acquista un diritto di rivendicazione nei confronti dell'artista; ha pieno diritto di esprimere la propria opinione e diffonderla, ma l'artista non è in alcun debito nei suoi confronti. E' lecito aspettarsi che un artista, nel lavoro di produzione di un'opera, impieghi una buona dose di diligenza. Al tempo stesso, nel momento in cui un'opera è prodotta e diffusa, non vedo il motivo per cui l'artista senta nei confronti di questa un dovere di fedeltà assoluta per l'eternità.

Questo vale, per esempio, anche per Bob Dylan. La sua carriera è stata lunga e piena di svolte. E' cambiato lui, è cambiata la sua ispirazione, sono cambiati i tempi. Bob Dylan non ha mai fatto mistero di ritenersi di volta in volta molto lontano dalle sue fasi precedenti. Ha continuato a cantare determinate canzoni nei concerti perché sapeva che molti si aspettavano questo da lui. Ma lo ha fatto decidendo sempre in relativa autonomia la propria scaletta, secondo le sue preferenze o, perché stupirsene, per convenienza. Pretendere che un artista vada contro la sua convenienza è sciocco. Nel momento in cui Bob Dylan è salito sul palco in Cina, aveva un unico obbligo: fare un buon concerto, cercando per quanto possibile di dare vita ad uno spettacolo che potesse avere una qualità sufficiente a soddisfare il pubblico. Le cronache lette sulla stampa non si avventurano mai a dare un giudizio sulla qualità del concerto. Spesso descrivono la tipologia di pubblico: sorge più di un dubbio che il pubblico presente si aspettasse, o desiderasse ardentemente, una "Blowin' in the Wind" o altre canzoni politiche. In parte era lì per la musica, e provate a chiedere a qualcuno che di musica ne capisce, di Dylan, e vedete se non vi parla di Highway 61 Revisited o di Blonde on Blonde (canonico), di Pat Garrett & Billy the Kid (multimediale), di Desire (ritardatario) oppure di Nashville Skyline (alternativo) o di Blood on the Tracks (particolarmente saggio). Per arrivare a The Freewheelin' Bob Dylan dovrete trascinarcelo, e allora vi parlerà di Girl from the North Country o di Don't Think Twice, it's All Right. Dovrete inchiodarlo, per farvi parlare delle canzoni politiche di The Freewheelin'. E allora a quel punto vi parlerà di Master of War o di A Hard Rain's A-Gonna Fall. Oppure erano lì per il simbolo, e per loro poteva anche starsene zitto, una volta salito sul palco.

E se Bob Dylan si fosse dato alla nuova svolta folk-di protesta? Chitarra imbracciata e versi taglienti verso il regime? Beh, lecito aspettarsi una nuova stretta verso la presenza degli artisti occidentali, come dopo Bjork. Poche notizie su Dylan in giro, magari nessuno scopre che ha scritto certe canzoni nella prima fase della carriera. Minore possibilità di conoscere l'arte occidentale -molte meno persone, magari, che scoprono Neil Young (Keep on rocking in the free world). Ma vuoi mettere? Bob Dylan che suona Blowin' in the Wind!
Si unisce allo sbeffeggiamento dello slogan dell'ultima fronda di ribellismo civico Adriano Sofri, nella rubrica Piccola Posta oggi sul Foglio (manca a dire il vero la parte finale, quell'"adesso" urlato ed invocato, che è il vero colpo di genio a rendere ridicolo lo slogan).

"Se non ora, quanto?"

Lo struzzonismo

Adesso che è stata approvata, si può provare a dare qualche giudizio. Non sulla legge in sé, visto che di rinvio in rinvio, di settimana in settimana, se n'è parlato talmente tanto nei giornali e nei talk show. Con buoni argomenti da entrambe le parti, con argomentazioni totalmente campate in aria da entrambe le parti, con un'insistenza e una ripetitività ossessiva, quando si pensava di aver trovato il punto giusto su cui battere, da entrambe le parti. Per cui, su questo, meglio andare a buffet. Che ognuno si prepari un piatto con quello che lo convince di più -e se riesce a farlo prendendo un po' da questo e un po' da quello, tanto meglio.

Proviamo a dire due cose sul comportamento del Pd (che novità, eh?). Con una prima precisazione, che non sarebbe necessaria, se la parola non fosse spuntata immancabilmente con un accento di disapprovazione in ogni tg in cui sia stata pronunciata: l'ostruzionismo è una tecnica più che legittima per un'opposizione parlamentare.

Ci siamo tutti innamorati nell'astratto di un modo di fare opposizione costruttivo, basato sulla disponibilità a collaborare per il miglioramento delle leggi, sulla presentazione di emendamenti per quegli articoli che proprio non vanno, su dibattiti ispirati, chiari e puntuali sugli argomenti in questione. Contemporaneamente non abbiamo avuto troppe riserve nel contestare chi declinava la pratica dell'opposizione unicamente sotto forma di slogan, lotte dure, aventini annunciati o praticati. Tutto buono, tutto giusto, a patto di non finire per rifiutare l'idea dell'ostruzionismo come pratica lecita, accettabile, efficace.

Il problema allora è capire quando darsi all'ostruzionismo può avere un senso. Giusto per non far venire meno il gusto dei bivi e delle dicotomie, i casi sono due. L'ostruzionismo può avere senso come simbolo, come gesto in sé: la legge è talmente sbagliata, talmente aberrante, un passo indietro per il vivere civile, un danno per l'intero Paese, che come opposizione ci sentiamo in dovere di tirare su un muro -perché voi maggioranza vi rendiate conto, di quanto siamo indignati, e magari abbiate un'illuminazione e rinsaviate; perché nel Paese si sappia, quanto è negativa la misura che sta per essere adottata, e l'opinione pubblica ne diventi cosciente; perché nessuno mai abbia l'ardire di considerarci complici di quello che viene fatto. L'altro caso è una funzionalità pratica della tattica. Faccio ostruzionismo, rallento a dismisura i lavori, faccio sì che ogni singola votazione sia portata avanti con un ritmo sfibrante, e in questo modo aumento la possibilità che su ogni singolo articolo votato venga meno il numero di voti necessari per l'approvazione. Con una lunga lista di possibili risultati: riesco a dare l'idea di una maggioranza in difficoltà, se ogni singola votazione diventa un rebus; ci riesco ancora meglio, se un certo numero di volte la maggioranza va sotto; è possibile che non siano approvati quegli articoli che trovo più inaccettabili; magari si affossa l'intera legge.

E in questo caso concreto? Non si era davvero nel secondo caso. Alcuni piccoli risultati erano già stati "portati a casa": molto rumore sulla questione, ampia copertura della stampa e quindi informazione dell'opinione pubblica, in un certo qual modo (al di là dei numeri finali dell'approvazione) si era dato ancora una volta l'idea della fragilità della maggioranza -presenze controllate con piglio da gendarmi, ministri fissi in aula, perfino il Consiglio dei Ministri tenuto in Parlamento. Gli altri risultati - quelli "concreti", non solo morali- non erano raggiungibili. Non che non lo fossero già dall'inizio, dato che non si era posta la fiducia, ma lo erano diventati almeno da quanto si era deciso, prevedibilmente, di procedere con il voto non segreto. Per cui le uniche ragioni dell'ostruzionismo rimanevano ideali, simboliche. Si potrebbe discutere se fosse il caso, se la situazione e la legge in questione fossero davvero da allarme democratico (no, il mio parere). Forse è meglio interrogarsi sull'opportunità di questo comportamento. Innanzitutto, un simbolo è reso più efficace dalla sua intensità. Meglio qualcosa di forte, deciso, ma di breve durata, rispetto a qualcosa che si trascina, fino all'inesorabile punto in cui inizierà a boccheggiare -e a puzzare- come un pesce. Fai il tuo gesto simbolico, ne godi i frutti, torni alle normali attività. Ma al di là dei risultati, dell'utilità, c'è anche una questione di principio. Uno dei punti-chiave della tua retorica è "hanno occupato il Parlamento per mille secoli con una questione secondaria, che non fa gli interessi del Paese, che fa gli interessi solo di poche persone, se non una". Declinato anche nella variante "questa maggioranza sta svilendo e compromettendo il ruolo del Parlamento". FANTASTICO. Detto senza ironia. Per una volta hai avuto l'accortezza di sceglierti una battaglia significativa e importante. Non una battaglia che puoi condurre senza alcuna attenzione ai modi, visto che allo svilimento del ruolo e dei lavori del Parlamento hanno contributo anche i governi di centro-sinistra, ma una battaglia che puoi comunque cavalcare con credibilità, visto che il momento più negativo di questo processo è ancora legato al secondo governo Berlusconi. Una battaglia di quelle di una volta, si potrebbe dire: che guarda al livello di civiltà e di dignità del Paese, che può avere effetti concreti sul miglioramento della politica e dell'amministrazione, che tocca alti livelli intellettuali e morali, ma ha al tempo stesso legami con la vita della gente. E come decidi di portarla avanti? Cercando di trasformare il Parlamento in un Vietnam nella speranza che la maggioranza incappi in una qualche imboscata? Allungando ancora a dismisura, di settimana in settimana, i lavori che stanno bloccando il Parlamento e intaccandone il senso ed il valore? Facendo il teatrino della recitazione degli articoli della Costituzione (contribuendo al processo di esaltazione e difesa acritica e fondamentalista della Costituzione sempre più diffuso? Dando una mano a svuotare sempre di più il testo dei suoi valori e della sua importanza, banalizzandolo a mantra spendibile in tutte le stagioni, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni?) invece di lanciarti in discorsi ispirati e vibranti, giusto la volta che ti capita di avere le carte buone in mano? Eterogenesi dei fini, si potrebbe dire, ricorrendo ad una categoria usata tutte le stagioni, in tutte le occasioni.

(poi ci sono anche i cori su Cicchitto - ma è questione diversa dall'ostruzionismo, anche se pure ha a che fare con il modo in cui il Pd opera in Parlamento. Poi ci sono le sparate di Asor Rosa e affini, e il degrado sempre maggiore delle manifestazioni davanti a Montecitorio. Ecco, bisogna stare attenti a dividere responsabilità da responsabilità, e a volerne vedere dove non ci sono. Ma un ostruzionismo abbastanza fanatico, sfibrante, boccheggiante di sicuro non aiuta).

giovedì 14 aprile 2011

Volevo scrivere due righe su quanto stia diventando fastidiosa e pedante l'insistenza di Saviano sulla "macchina del fango" e su quanto sia puerile farne una parola-chiave della propria retorica.

Pare sia stato preceduto.

domenica 10 aprile 2011

Una buona causa

Visto che ognuno di noi ha tre desideri che può vedersi soddisfatti (funziona così, no? Ognuno di noi ha questi tre desideri, una sorta di dono innato, una dote che possiamo spendere quando lo riteniamo opportuno) e a me rimane solo il terzo - a quanto pare devo avere sprecato i primi due mentre dormivo. Visto che non è una regola scritta ma di certo è una consuetudine ormai consolidatasi e sancita socialmente, e in ogni caso un'opportuno gesto di buona creanza, dopo aver goduto dei frutti personali dei primi due desideri dedicare il terzo ad una causa comune, a migliorare la vita di molti, se non di tutti (dovrò scoprirlo, prima o poi, quale sarebbe questo vantaggio personale che mi sono conquistato, con il sacrificio involontario dei primi due desideri). Visto che, infine, di questi tempi la maggior parte della gente (oddio, non ci metterei la mano sul fuoco però) sembra averlo capito (a forza di dai e dai e dai) che con le rivoluzioni morali, o ideologiche, o sociali non si va molto lontano, o se si riesce ad andare lontano, si finisce immancabilmente all'inferno; visto che si è capito, più o meno, dicevo, che con le buone opere di ingegneria sociale ed etica si manda tutto a scatafascio -e a questo punto, liberatici dai moti dal basso o dai grandi disegni calati dall'alto, non ci restano che i terzi desideri, per migliorare il mondo).

A questo punto, facciamo così. Genio, o Gesù Bambino, o Pozzo profondo profondo, per il mio terzo desiderio, per il desiderio caritatevole, fate così, togliete dal mondo quello che più di tutto rischia di mandarlo al macero e di rovinare la vita di tutti e di creare tanta sofferenza a noi poveri cristi. L'entusiasmo. Quella brutta bestia che rende tutti zelanti; che porta chi ne è colpito a volervi convertite per forza, o almeno risollevarvi il morale (che è in fondo un tentativo di conversione ancora più subdola -una conversione a cui sia stata tolta l'ambizione). Che spinge ainiziare grandi opere, a voler mettere su un piccolo impero, e poi finisce sempre che sono altri a doverci mettere spalle, ed arti, e sforzi tremendi perché se ne venga a capo, oppure restano rovine a metà e comunque, immancabilmente, è sempre qualcun'altro ad andarci di mezzo, quando se le vede crollare in testa.

Davvero, facciamo così. Liberi tutti da quella piaga che è l'entusiasmo.

sabato 9 aprile 2011

Vasco ma che stai a canta'? / 13

"ma sei sempre il sole che scende in un ufficio pubblico per appenderci un altro crocefisso"

Vasco Brondi nella canzone "Quando tornerai dall'estero"

venerdì 8 aprile 2011

Vasco ma che stai a canta'? / 12

"le tue illuminazioni i nostri cristi fosforescenti i nostri pomeriggi appesi appesi come Mussolini e lunghi tirocini incendi nei tuoi capelli biondi e fiumi di detersivi"

Vasco Brondi nella canzone "Le ragazze kamikaze"

giovedì 7 aprile 2011

Vasco ma che stai a canta'? / 11

"vogliamo anche le rose e delle stelle tra le costole tra le tue occhiaie azzurre perché preferiamo perdere le luci di dicembre delle raffinerie di ravenna"

Vasco Brondi nella canzone "Una guerra fredda"

martedì 5 aprile 2011

Aria fritta

Vedete, Millat non l'amava. E lei pensava che Millat non l'amasse perché non poteva. Pensava che fosse così danneggiato da non poter più amare nessuno. E voleva trovare chi l'aveva danneggiato fino a quel punto, danneggiato in modo tanto orribile, voleva trovare chiunque l'avesse reso incapace di amarla.
Che strano, il mondo moderno. Nelle toilette si sentono ragazze che dicono: «Sì, mi ha scopata e poi se n'è andato. Non mi amava. Era così completamente incapace di amare. Era troppo incasinato per sapermi amare». Ora, com'è accaduto? Che cosa, in questo secolo così poco amabile, ci ha convinti che malgrado tutto siamo da amare come persone, come specie? Chi ci ha portati a pensare che chiunque non ci ami sia in qualche modo danneggiato, mancante di qualcosa, malfunzionante? E in particolare se ci sostituiscono con un dio, o con una madonna piangente, con la faccia di Cristo in un telo di stoffa...allora gli diamo dei pazzi. Degli illusi. Dei regrediti. Siamo così convinti della bontà di noi stessi, e della bontà del nostro amore, che non sopportiamo di credere che possa esistere qualcosa di più degno d'amore di noi, di più degno d'adorazione. I cartoncini per le varie festività continuano a ripeterci che tutti meritano amore. No. Tutti meritano aria fritta. Non tutti meritano amore in ogni occasione.

Zadie Smith - Denti bianchi.

Vasco ma che stai a canta'? / 10

"ci troveremo davanti ai nostri muri dei pianti oppure uccisi da Putin"

Vasco Brondi nella canzone "Per respingerti in mare"

lunedì 4 aprile 2011

Vasco ma che stai a canta'? / 9

"fare l'amore nei container tra i file di ricordi"

Vasco Brondi nella canzone "L'amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici"

domenica 3 aprile 2011

"E' una ruota che gira...

...che gira e se ne va, ma ritorna e dopo parte, gira gira e se ne va" (cit.)

* una ragione per cui sarebbe sbagliato scriverci Sarkozy.

** una seconda ragione per cui ecc ecc.

*** il 100% della persona campione intervistata ha concordato nell'individuare Bidasio come simbolo più esemplificativo dell'inferiorità e del basso valore del popolo della Destra Piave. Perché, nonostante ora anche le liste elettorali avvallino varie voci sull'esistenza di una Razza Piave, è più che evidente a qualunque persona dotata di comune buonsenso e di discreta capacità di osservazione che le persone punite da Dio con un'origine DP manifestano nasi larghi e schiacciati, pigmentazioni meno eleganti, capelli che inevitabilmente si sviluppano in nidi indistricabili e dall'aspetto sgradevole e, a differenza di quanto sarebbe lecito attendersi a questo punto, misure decisamente inadatte a soddisfare una donna. L'identità della persona campione verrà ovviamente omessa, a tutela della privacy e per evitare spiacevoli incidenti.