venerdì 15 aprile 2011

Una corona per ogni menestrello

Nell'ultima settimana sulla stampa internazionale è tornato in auge il tema del ruolo pubblico ed etico dell'artista. Non tanto per un rilancio del dibattito teorico su quale sia, o debba essere, questo ruolo, quanto piuttosto una grande enfasi su una manciata di casi concreti e di polemiche. Dei concerti cinesi di Dylan e della sua accettazione di una (ancora difficile capire se effettiva o presunta) censura da parte della autorità della scaletta si è occupata in pratica tutta la stampa anglosassone. L'edizione inglese dello Spiegel ha invece pubblicato una lunga intervista all'architetto Meinhard von Gerkan. In entrambi i casi, si parla di Cina - una buona dose della mia obiettività va a farsi friggere.

Per chiudere la questione Dylan sarebbe più che sufficiente richiamare un intervento su un blog del Guardian. Quello che scrive Jonathan Jones merita di essere letto fino in fondo, ma già alcune frasi del primo capoverso rispondono più che a dovere a tutte le polemiche nate. "What a lot of nonsense: if you thought Dylan would ever take an obvious political line you haven't been following him carefully enough." "It's understandable for human-rights campaigners to wish for public support from Dylan. It is obtuse, however, for them to suggest that he is somehow betraying his own values as a political songwriter by not protesting."

L'intervista di von Gerkan merita invece un numero maggiore di citazioni. In parte perché è lecito credere che abbiamo avuto minore diffusione degli articoli su Dylan; in parte perché quello che l'architetto dice -non sempre in modo posato e lucido, a tratti spazientito dall'intervistatore- è spesso condivisibile e sempre interessante; in parte infine perché l'intervista nel suo insieme è un buon esempio di qualcosa che penso da molto ma che generalmente è difficile sostenere a dovere: se siamo sempre pronti a deprecare lo scarso servizio offerto da giornalisti ed interviste eccessivamente timidi e assoggettati, bisognerebbe al tempo stesso rivedere l'idea del giornalista come un cane ringhioso, che fa il suo dovere solo se si arma di insistenza oltre ogni limite, rifiuto sprezzante di ogni assoggettamento all'intervistato, una buona dose di malizia.

Alcune frasi di von Gerkan:

"Instead of bringing calm to the situation, actions like Ai's arrest will only incite the protesters even further. I don't understand the Chinese in this regard."
"There is no question that there are still many deplorable incidents, but one thing is clear: never in Chinese history has there been this much freedom for the individual."
"Willy Brandt said that change is possible through rapprochement, not through embargoes."
"Believe me, there is a big difference between East Germany and today's China. I experienced the East German system up close, because I studied in Berlin. What i experienced at the time -the level of inhuman behavior- doesn't exist in China by a long shot."
"Based on that argument, one would have to conclude that no one should be allowed to build in Germany anymore, either. Germany as a whole is contaminated."
"This idea of only wanting to work for private individuals is absurd. In a country like China, where does private end and where does government-owned begin?"
"You shouldn't overestimate the social role and function of an architect -even when he plays a somewhat bigger role in the public's perception, as I do. An architect has a limited ability to influence things."
"But it's also erroneous to say that the architect must realize his potential in every building. Architect must primarily react to the location."
"In the case of the National Museum in Beijing, the changes were part of a discursive process."

Quando si arriva al ruolo pubblico o sociale degli artisti, si sta un attimo a farsi fuorviare. Quelli che sostengono che questo ruolo sociale esista, e che molto spesso si sentono in diritto di giudicare se e come questo sia stato rispettato, lo fanno generalmente sulla base di uno di questi due ragionamenti. Possono essere convinti che un simile ruolo morale lo abbia ognuno, ogni persona. Oppure possono essere convinti che gli artisti abbiano questo ruolo proprio per la loro attività o visibilità, e che sia appunto questo aspetto ad assegnare loro un dovere che le persone comuni non hanno. In entrambi i casi, ci si sbaglia di grosso.

Nel primo, è più che lecito sospettare di trovarsi davanti ad un giacobino. Qualcuno che crede di aver trovato -senza possibilità di errore- quelle virtù morali che sono non semplicemente auspicabili o apprezzabili ma doverose e pretendibili. Chi non le manifesti o non le eserciti commette a tutti gli effetti un peccato od un reato -nei migliori dei casi dovrà essere chiamato a renderne conto, nel peggiore costretto a farne pubblica ammenda e rieducato, perché non accada nuovamente. Il perché si pretenda la mobilitazione morale di massa ha molto a che fare con un concetto di lunga data che da qualche decennio viene immancabilmente espresso con un verso di De André: "Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti." Balle. Davvero, balle, balle, balle. Non tutti sono immancabilmente coinvolti in ogni caso, qualunque cosa succeda, qualunque siano i diversi elementi delle diverse situazioni. Le responsabilità bisognerebbe stare attenti a maneggiarle, e ancora di più ad affibbiarle. Se qualcuno se le vuole assumere di suo conto, fantastico, ma nel momento in cui si voglia invece affibbiarle, bisognerebbe usare tutte le premure e precauzioni possibili.

Nel secondo, ci troviamo di fronte ad una mania abbastanza diffusa. Le persone pubbliche, soprattutto se si tratta di attori, scrittori, musicisti, finiscono sepolte sotto una marea di doveri che abbiamo deciso unilateralmente di assegnare loro. C'entra la falsa prospettiva da cui le guardiamo, per cui finiamo per spogliarle dei normali elementi di umanità che proviamo per chiunque altro ci stia vicino. C'entra il modo in cui avvertiamo i mille privilegi che attribuiamo loro -in parte questi privilegi ci sono, in parte li ingigantiamo, in parte non siamo minimamente disposti a considerare i molti svantaggi che costituiscono l'altro lato della medaglia. Un artista in realtà ha, nei confronti del proprio pubblico, ben pochi doveri. Pubblica un'opera e la condivide con il pubblico, con chi si dimostra disponibile a leggerla, vederla, ascoltarla. La decisione di leggerla, vederla, ecc. è presa di propria spontanea iniziativa da chi ne usufruisce -senza alcuna costrizione dell'artista. Questo artista ricava (al giorno d'oggi: per quanto possibile) un compenso per l'aver impiegato le proprie capacità nella produzione di un'opera. Se l'opera si rivela essere di basso valore, chi ne entra in contatto non acquista un diritto di rivendicazione nei confronti dell'artista; ha pieno diritto di esprimere la propria opinione e diffonderla, ma l'artista non è in alcun debito nei suoi confronti. E' lecito aspettarsi che un artista, nel lavoro di produzione di un'opera, impieghi una buona dose di diligenza. Al tempo stesso, nel momento in cui un'opera è prodotta e diffusa, non vedo il motivo per cui l'artista senta nei confronti di questa un dovere di fedeltà assoluta per l'eternità.

Questo vale, per esempio, anche per Bob Dylan. La sua carriera è stata lunga e piena di svolte. E' cambiato lui, è cambiata la sua ispirazione, sono cambiati i tempi. Bob Dylan non ha mai fatto mistero di ritenersi di volta in volta molto lontano dalle sue fasi precedenti. Ha continuato a cantare determinate canzoni nei concerti perché sapeva che molti si aspettavano questo da lui. Ma lo ha fatto decidendo sempre in relativa autonomia la propria scaletta, secondo le sue preferenze o, perché stupirsene, per convenienza. Pretendere che un artista vada contro la sua convenienza è sciocco. Nel momento in cui Bob Dylan è salito sul palco in Cina, aveva un unico obbligo: fare un buon concerto, cercando per quanto possibile di dare vita ad uno spettacolo che potesse avere una qualità sufficiente a soddisfare il pubblico. Le cronache lette sulla stampa non si avventurano mai a dare un giudizio sulla qualità del concerto. Spesso descrivono la tipologia di pubblico: sorge più di un dubbio che il pubblico presente si aspettasse, o desiderasse ardentemente, una "Blowin' in the Wind" o altre canzoni politiche. In parte era lì per la musica, e provate a chiedere a qualcuno che di musica ne capisce, di Dylan, e vedete se non vi parla di Highway 61 Revisited o di Blonde on Blonde (canonico), di Pat Garrett & Billy the Kid (multimediale), di Desire (ritardatario) oppure di Nashville Skyline (alternativo) o di Blood on the Tracks (particolarmente saggio). Per arrivare a The Freewheelin' Bob Dylan dovrete trascinarcelo, e allora vi parlerà di Girl from the North Country o di Don't Think Twice, it's All Right. Dovrete inchiodarlo, per farvi parlare delle canzoni politiche di The Freewheelin'. E allora a quel punto vi parlerà di Master of War o di A Hard Rain's A-Gonna Fall. Oppure erano lì per il simbolo, e per loro poteva anche starsene zitto, una volta salito sul palco.

E se Bob Dylan si fosse dato alla nuova svolta folk-di protesta? Chitarra imbracciata e versi taglienti verso il regime? Beh, lecito aspettarsi una nuova stretta verso la presenza degli artisti occidentali, come dopo Bjork. Poche notizie su Dylan in giro, magari nessuno scopre che ha scritto certe canzoni nella prima fase della carriera. Minore possibilità di conoscere l'arte occidentale -molte meno persone, magari, che scoprono Neil Young (Keep on rocking in the free world). Ma vuoi mettere? Bob Dylan che suona Blowin' in the Wind!

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