martedì 21 dicembre 2010

Appunti per un talk-show.

La vecchia storia del così si passa dalla parte della ragione a quella del torto, ma non proprio uguale. Partiamo da più lontano. Chiunque guardi dei talk-show politici (io ne sono malato) sa bene che la bassa qualità di questi programmi è un simbolo facile facile dei problemi del mondo della politica del paese. Uno che su questo tema si è speso molto, tanto per citare un nome, è Luca Sofri (ok, si, va bene, qui citiamo sempre lui. Fatevene una ragione). I tre problemi più evidenti di questi talk-show -non gli unici, ma quelli che saltano agli occhi di chiunque li guardi, o quasi- sono: una parte consistente degli ospiti si pone il compito non di partecipare allo sviluppo di un dibattito e di rispondere nel merito delle domande che le viene posta, o delle tesi avanzate dalle altre parti, ma di indovinare la frase o le argomentazioni che facciano sembrare la fazione che sostiene dalla parte della ragione (da qui la preponderanza degli slogan sui ragionamenti; il carattere frammentato delle discussioni, che non riescono ad avere un vero filo logico; il cadere nel vuoto di temi e particolari che sarebbero invece fondamentali per la formazione e l'informazione dell'opinione pubblica); secondo, molti ospiti urlano; terzo, gli ospiti si interrompono a vicenda e si accavallano.

I primi due problemi sono di difficile soluzione. O meglio: avrebbero entrambi una soluzione molto semplice ma il cui impiego concreto è molto improbabile. Per il primo, un netto miglioramento sarebbe possibile attraverso l'invito, come si fa in molti altri paesi, Stati Uniti tra tutti, di analisti della politica, invece che politici in prima persona. Se nel nostro Paese il tenore dei giornalisti politici (per lo meno in un certo tipo di stampa) lascia a volte a desiderare, esiste un numero elevato di "tecnici", scienziati della politica o di altre scienze umane che lavorano per università, centri studi, think-tank, fondazioni. Riguardo ai politici, è sufficiente una cernita abbastanza superficiale, per riuscire a separare quei politici che possono vantare una rispettabile caratura intellettuale e che sono davvero in grado di forgiare le politiche del proprio partito e capirne le implicazioni da quelli che sono riusciti ad autopromuoversi attraverso sparate estemporanee o da caserma. Per il secondo, è sufficiente abbassare, se non spegnere, nei casi in questione, il microfono dell'ospite. In un primo momento ci sarebbero denunce varie ed eventuali di censura, o di limitazione della libertà di espressione ma non ci vorrà troppo tempo prima che sia chiaro a tutti che è in gioco non la possibilità di esprimere un pensiero, ma il modo in cui questo viene espresso.

Ma è riguardo il terzo problema che voglio lanciare un appello. L'interruzione di un ospite da parte di un altro ospite è una pratica barbara. Qualcosa di incivile che al giorno d'oggi ecc. ecc. In più, oggi è diventata una tecnica di guerriglia. Chi la adotta è a conti fatti una sorta di vietcong. Basta già solo che adotti questa tecnica ed è ovvio che si tratta di una persona che di moderato ha poco; si tratta di qualcuno che rifiuta con spregio l'occasione di dibattito o di dialogo e che la vuole buttare in guerra. In più, schiva con attenzione il campo aperto, e si dà alla macchia, cercando di sfiancare l'avversario con punzecchiature ed interruzioni intermittenti. Tanto, in fondo, non ci perde niente; non ha, ovviamente, le qualità per partecipare al dibattito attraverso modi più convenzionali e, in questo senso, non ha una faccia da perdere. Poi, capita spesso che gli vada anche bene, questo giochino, e che riesca a far perdere il filo a chi sta intervenendo oppure di far passare l'impressione che l'altro sia impreparato (il discorso non riesce a completarlo in modo lineare o, comunque, la linearità non viene percepita da chi ascolta; per un gioco perverso una parte degli ascoltatori può essere portata a credere che le interruzioni siano colpa sua -se il suo discorso filasse come un treno, l'altro non troverebbe gli attimi per infilarsi nell'intervento).

Bene. Qui vogliamo lanciare una campagna per la messa al bando dei "non mi interrompa", "mi faccia finire", "posso finire?" e infine dell'astro nascente "io non l'ho interrotta, però, faccia altrettanto". Sono mosse sbagliate, nella teoria e nella pratica -e inoltre stanno subendo una metamorfosi che le trascina alla deriva. L'errore più evidente sta nel loro effetto pratico. Un ospite che ne faccia ricorso corre seri rischi di passare per spocchioso, se non di peggio. Un abatino, un damerino inamidato. Qualcuno che si sottrae al tipo di dibattito che si sta sviluppando perché non è in grado di parteciparvi (non perché non voglia). Un debole che si tira indietro quando il gioco si fa duro. Far passare una simile immagine di sé va a danno non tanto della propria persona, ma della tesi che si sta sostenendo, che si presume essere valida ed importante per il Paese. E' sbagliata nella teoria perché una simile frase ha senso solamente se riesce ad ottenere l'obiettivo prefissato e in simili situazioni cadrà sempre nel vuoto. Con espressioni del genere, inoltre, si finisce per trasformare quel tipo di educazione, di civiltà, di moderazione in una semplice regola del gioco o peggio in una merce di scambio (io non l'ho fatto, non lo faccia nemmeno lei). E' molto più saggio limitarsi a trattenersi dal cadere a propria volta in questa forma di maleducazione e sopportare quando ci viene rivolta, magari giocando con pause ad effetto nel parlare, quando servono a rendere palese quando l' (altro) re sia nudo. Qualcosa di simile è la strategia, per esempio, della De Gregorio. Si rischia di passare per remissivi, ma a me sembra davvero il male minore.

Per cercare di risolvere il problema, altro appello: conduttori di talk-show adottate una forma di segnaletica in sovraimpressione con del testo che metta in chiaro quando simili forme di interruzione sono esempio di maleducazione e non gradite nel programma, nei casi in cui questo succede.

(altro appello, visto che c'ho preso gusto. In particolare ai registi di quei talk-show che hanno fama di essere più "schierati": basta inquadrare le espressioni degli altri ospiti quando sta parlando un altro invitato, o il presentatore. Inquadrate la persona che sta parlando, o mandate delle immagini che abbiamo a che vedere con quanto viene detto. Vi credete furbi, a beccare una risatina involontaria di un membro del governo ad una vignetta di Vauro. Varie manifestazioni di dissenso o di orticaria quando parla un leghista o qualcuno di sinistra sinistra. Una qualche pantomima di un dipietrista. Beh, proprio per niente.)
In questi giorni, c'è un nuovo tarlo. Potrà sembrare che sia arrivato tardi. Hanno anche già creato una rubrica apposita sul Foglio. In realtà è un problema che mi porto dietro da lungo tempo - da molto prima che turbasse i sonni di molti. Da quando è entrato in SL (ma chi, lui? Non è che vi siete confusi? Noi si doveva andare dall'altra parte, quella dei riformisti seri. Qui siamo contromano); da quando si è deciso di farne il leader (ecco cosa succede, a far entrare cani e porci); da quando hanno aggiunto l'ecologia (e un pace no scusa? Ci starebbe tanto bene. Lo spazio è poco, ma puoi scriverlo in piccolo, o metterlo un po' in diagonale). Da quando le ultime campagne elettorali, intere, sono state buttate al vento per il suo stucchevole personalismo.

Comunque, ho un dubbio. Nichi Vendola? Ma lo dite sul serio, senza scherzare?

venerdì 10 dicembre 2010

Giochi di dicembre

Nell'attesa delle varie classifiche sui 100, o 50, o 25 (per i più anticonformisti: 20) migliori album del 2010 -un trittico di sicura affidabilità: NME, Pitchfork, il Tab di Cambridge- ottima occasione per recuperare le uscite non considerate e soprattutto per cercare di capire, da quella lista, se il 2010 è stato un altro anno di desolazione con qualche cattedrale nel deserto, o se sarà ricordato per la nascita di nuove correnti, stili, scuole, scene, ecco, per il momento, una classifica delle venti migliori cover dell'anno. Ché qui alle cover ci teniamo.

domenica 28 novembre 2010

Per ora noi la chiameremo utopia.

C'è gente che considera la trasparenza doverosa e indispensabile. C'è gente convinta che con più trasparenza si starebbe meglio tutti, si ridurrebbero gli spazi di manovra per quei pochi e il buonsenso di molti sarebbe la base di partenza per un sistema più giusto. Poi c'è gente che non la pensa così, ad essere sinceri.

giovedì 7 ottobre 2010

Onestà intellettuale a geometria variabile.

Va a finire che guardo un'intera puntata di Annozero (certamente non meno fastidiosa della norma), solo perché Chiara Moroni è una donna bellissima, ed è vestita in modo davvero sexy.

Che porco, che porco.

venerdì 1 ottobre 2010

Sms a un bambino mai immatricolato.

Vale la pena iscriversi solo a tre corsi: Relazioni Internazionali, Scienze della Comunicazione, Fisica.

(Sono un po' di parte, e fissato con The Big Bang Theory)

domenica 26 settembre 2010

Ciò che scompare.

In molti ambiti, in particolare sulla stampa tradizionale, sembra che parlare di Internet coincida sempre più con il parlare di Facebook. Oppure che sia ancora possibile parlarne in termini più generici ma attribuendogli comunque i caratteri che sono propri di Facebook, e identificandolo con dinamiche che sono proprie di quel network. Il problema principale sembra essere il permanere di dati ed informazioni nel lungo periodo, oltre il periodo temporale in cui la loro presenza aveva un senso. Tutto rimane, e tornerà a perseguitarti quando meno te lo aspetti; per cui, attenti. Ne ha parlato anche Obama, per dire. Questioni pesanti. E decisamente ingigantite e sopravvalutate, aggiungerei. In una certa misura fittizie, perfino: non è vero, in molti casi, che le tracce non possano essere cancellate e che ciò che viene pubblicato finisca al di fuori del nostro controllo. Infine, non si tratta di qualcosa di nuovo: è una dinamica che è sempre esistita anche nella vita nelle comunità reali. Le informazioni rilasciate circolano in ambienti più grandi di quelli a cui le avevamo indirizzate, e hanno tempi di smaltimento più lunghi di quanto potessimo immaginare. Non si presenta quindi la necessità di mettere in guardia qualcuno da insidie nuove e impreviste: i rischi, quando esistono, e quando sono rilevanti, erano già presenti nella quotidianità e chi rischia di incapparci era già in precedenza in qualche modo inadeguato a situazioni che poteva vivere nella vita reale. Si tratta di persone che non hanno mai saputo cogliere uno degli aspetti fondamentali della comunicazione umana: il suo svilupparsi attraverso diagonali asimmetriche. Concediamo a persone diverse di conoscere la nostra identità a gradi diversi per qualità, profondità, estensione; proprio registrando e adattando queste asimmetrie possiamo dare ordine e orientamento alle nostre relazioni sociali, tenendole sotto il nostro controllo. Non ci si deve fare un'idea troppo negativa del fenomeno, come se ci nascondessimo dietro molte maschere, scelte di volta in volta sulla base dell'interlocutore. Il concetto di maschera è sopravvalutato, in sociologia. Semplicemente la nostra identità è estesa e multiforme e quasi mai riesce a manifestarsi interamente; a seconda delle situazioni scegliamo quindi quale parte di essa è possibile ed adeguato esporre.

Mi sembra molto più interessante il tema opposto. Ciò che da Internet scompare. Sono sicuro che da questo argomento si potrebbero tirar fuori dei validi racconti. Alcune cose da Internet vengono cancellate, con il tempo; ne derivano grossi rammarichi. Ne siamo venuti a conoscenza troppo tardi, non in tempo per poterne usufruire. Oppure, proprio sulla base di quella presunzione di conservazione per tempi indefiniti che è sempre più diffusa, le avevamo lasciate in stand-by, consultandole di tanto in tanto, in modo frammentato, a piccoli grappoli, contando su una loro costante presenza. A saperlo, c'avremmo messo più impegno. Due esempi personali: il blog di qualcuno prima che vincesse il campionato del mondo (c'entrava il cristallo, credo) -troppo tardi; il blog della Came su Splinder, il miglior blog personale che abbia mai avuto modo di leggere -saltuariamente-, capace di coinvolgere, turbare, impensierire e lasciare ombre ed aloni -quanti post persi e quante occasioni. Rammarico, dicevamo.

Some dozens of lost sleep hours can't be wrong.

(adattandomi all'etichetta, metto educatamente qualche avviso preliminare. Il post è una recensione della serie tv Weeds, anche se poi per la maggior parte dello spazio parlo d'altro. Forti e diffusi rischi di spoiler. Riflessioni alla luce delle stagioni 1-4, non ho ancora avuto modo di vedere la 5 e l'inizio della 6. Anche se nel post non ne parlo, la serie ha una colonna sonora eccezionale, la migliore dopo Californication, finora.)

Weeds è una serie molto bella. Non è certo la frase più accattivante con cui iniziare una recensione, me ne rendo conto, per almeno un paio di motivi. Primo: se voi ed i vostri amici siete appassionati di serie televisive avrete già avuto modo di vedere Weeds, o di sentirne parlare. In caso contrario, di sicuro non è con frasi del genere che catturerò la vostra attenzione e riuscirò a convincervi. Secondo: bello non è un aggettivo molto esplicativo per cercare di descrivere qualcosa, ed è, anzi, molto infantile. Richiama quel periodo, da bambini, quando tutto si riduceva alla dicotomia bello/brutto ed il mondo era tutto compreso trai limiti orientali ed occidentali di queste due parole, e al massimo si poteva espandere a nord e sud secondo la linea buono/cattivo (ad arrivarci, a buono/cattivo; non è così semplice). Il punto è che quando penso a Weeds, finisco sempre per farmi venire in mente la bellezza. Non tanto perché il cuore della serie sia un qualche fine estetico, o perché ciò che la distingua sia una qualità formale insolita. Semplicemente, ho più di un sospetto che l'eventualità di apprezzare la serie e soprattutto la misura in cui questo possa avvenire, alla fin fine, siano legate imprescindibilmente al rapporto che ognuno di noi ha con la bellezza. Quindi, per cercare di sponsorizzarvi questo telefilm, il modo migliore mi sembra quello di lasciare perdere -per il momento- qualsiasi analisi di caratteristiche, vizi e virtù del prodotto e spiegarvi che tipo di persone dovete essere, per avere maggiori possibilità di appassionarvici.

Sulla base della mia esperienza (sì, è ben poca cosa, lo so, ma è tutto quello che io ho e, comunque, non è ancora finita) le persone possono essere identificate in cinque categorie, sulla base del proprio rapporto con la bellezza. Iniziamo dai due estremi. Con una piccola avvertenza: non è questo un caso in cui si possa dire che la virtù stia nel mezzo e che i due limiti rappresentino condizioni radicali indesiderabili; sono convinto anzi che molti alla fine le troveranno delle situazioni ideali e crederanno -o spereranno- di esservi compresi.

Asceti. Ci sono persone che non sono interessate alla bellezza. La bellezza li lascia in fin dei conti indifferenti, non procura loro particolare godimento e quindi sono portati a non costruire alcun rapporto con essa. Ad alcuni potrà sembrare una prospettiva arida, ma lo trovo un giudizio superficiale; quelle persone hanno semplicemente altre priorità. Altri potrebbero vederla come una scelta ascetica; con ogni probabilità è solamente pragmatica.

Eletti. Alcune persone sono attratte dalla bellezza naturalmente, come per una sorta di magnetismo. Non hanno bisogno di interrogarsi sul senso e sulla natura della bellezza, di riflettere su quale posizione adottare riguardo ad essa, di dannarsi nella sua ricerca; il rapporto che instaurano con la bellezza è pre-intellettuale, non mediato da ragionamenti. Si tratta di persone che provano una sensazione estatica davanti ai lavori di El Greco -una sorta di vampata che lascia un piacevole e persistente tepore-, che abbracciano con morsi lineari la pienezza del sapore di un carpaccio di salmone, che riconoscono il vino buono senza etichette o menù, e senza sentire il bisogno di catalogarne il profumo, il corpo, il colore. È facile intuire che questa passi per essere una categoria eletta e che ognuno di noi -noi che ovviamente non ne facciamo parte- cerchi di barare con se stesso per convincersi di farne parte. Non è nemmeno così difficile, illudersi, perché la maggior parte delle persone comuni riesce a vivere momenti del genere, a volte perfino con frequenza. Ma che si tratti, per essi, di un'illusione è sicuro, per tre elementi.

A) Esperienze del genere sono per loro sporadiche, episodiche -non già costanti e organiche. Per far parte di questa categoria è necessario cogliere l'ordito di bellezza che circonda ognuno di noi, nella sua interezza, non è sufficiente notare dei dettagli sparsi qua e là.

B) Manca, in questi casi, la naturalezza e l'istintività dell'esperienza. Mai capitato di inserire nel lettore una pietra miliare del jazz con la ferma intenzione di farvelo piacere? Mai sentito l'esigenza di richiamarvi alla mente, durante la visione di un film della Nouvelle Vague, tutti i validi motivi per cui dovete apprezzare profondamente la caratterizzazione dei personaggi e le atmosfere abbozzate? Oppure, vi è familiare l'avvertire un'urgente necessità, dopo un momento di godimento estatico, di tormentarvi con l'esigenza di capire e analizzare quanto vi è accaduto, sviscerandolo in ogni suo elemento? Benvenuti nel club.

C) In virtù del loro rapporto con la bellezza, le persone incluse in questa categoria riescono ad avere una presa forte, ed al tempo stesso tranquilla, su questa, quando la incontrano. Non è mai successo che, una volta afferrata, sia scappata loro tra le dita. Potete dire altrettanto?

Finora si è trattato di fasce a bassa densità, e persone di questo tipo sono rare. Se contate sulle dita pensando alle vostre conoscenze, è difficile che riempiate entrambe le mani; le tre categorie rimanenti sono, in un certo senso, più comuni. Condividono un elemento: comprendono persone che avvertono fortemente l'esigenza di cercare, individuare e poi trattenere nel proprio spazio, nella propria vita, la bellezza. Avvertono questa esigenza perché la bellezza non è per loro neutra, indifferente, ma è preziosa, attribuiscono ad essa un gran valore. Al tempo stesso non la riconoscono fluire attorno a loro senza aver prima strizzato gli occhi e agitato un braccio un po' alla cieca. Inutile dire che l'essere presi da questa frenesia, nel bisogno e nella ricerca, produce un senso più o meno accentuato di malessere. Ciò che le differenzia è il risultato ottenuto con una simile ricerca.

Conformisti. Delle persone, nonostante gli sforzi febbrili e l'impegno profuso, non riescono a trovare, attorno a loro, alcun tipo di bellezza. Rimangono però convinte che una qualche bellezza debba comunque esistere, sebbene a loro non sia possibile identificarla, e che sia vitale per il loro benessere avere comunque la possibilità di entrarne in contatto. L'unica strada disponibile è quindi quella di accettare e fare propri i risultati della ricerca altrui; ciò è possibile affidandosi ad alcuni individui verso cui si nutre un sufficiente grado di fiducia o di ammirazione oppure -con una scelta in linea con lo spirito del tempo in cui viviamo- riponendo la propria fiducia nella maggioranza. In entrambi i casi questo meccanismo rappresenta una sorta di conformismo ed i rischi che i risultati non siano soddisfacenti sono sempre molto alti. Ad alcuni le persone comprese in questa categoria finiranno per sembrare sterili; ancora una volta, a me sembra un giudizio troppo affrettato.

Kitsch. Credo non vi sarà necessario nessuno sforzo per figurarvi questa categoria: sventurati che hanno perso la rotta, nel viaggio, contando su una bussola non ben tarata. Si sono fatti guidare dal cattivo gusto ed i risultati sono evidenti e -spesso- grotteschi.

Feticisti. Ho l'impressione -nei miei momenti migliori, in cui nutro grandi speranze per l'umanità, e mi rifiuto di credere che la categoria precedente abbia vinto nella selezione naturale- che questa sia la categoria di persone più diffusa ma c'è il rischio che sia fregato dalla convinzione di farne parte. Queste persone riescono, nella maggior parte dei casi, a sviluppare un rapporto con la bellezza per molti versi migliore rispetto alla terza ed alla quarta categoria e nutrono la ferma ma inutile aspirazione di poter approdare, magari un giorno, al gruppo degli eletti. Per il momento devono accontentarsi di essere riusciti più di chiunque altro a portare avanti riflessioni di alto livello sulla bellezza. Il problema, per loro -ammesso che si tratti di un problema-, è che il riconoscimento della bellezza passi attraverso una ricerca formale ed intellettuale, che si basi sull'astrazione, sull'analisi e non su un esperienza diretta e concreta. In questo percorso, l'oggetto incarnante la bellezza viene individuato non per la sua natura intrinseca ma attraverso alcune caratteristiche, attraverso alcuni dettagli. Questa parzialità comporta alcuni rischi e può portare ad un certo numero di derive. È possibile, ad esempio, che il ruolo fondamentale che i dettagli vengono a svolgere faccia sì che la fonte del godimento estetico diventi i dettagli stessi e non l'oggetto che li presenta: il feticismo in senso stretto. Oppure, essendo molto più facile notare i dettagli quando questi manifestano un alto grado di particolarità, di eccentricità, si possono sviluppare criteri di scelta via via più insoliti, incomprensibili agli altri, che finiranno per essere giudicati anomali, malati, perversi. Lo stadio terminale di questa deriva -di questa potenzialmente profonda deriva- è diventare poeti decadentisti francesi.

Se mi avete seguito fino a questo punto, veniamo ora a Weeds. Tutto quello che posso dirvi, per la mia esperienza personale, è che le possibilità che vi appassionate alla serie sono infinitamente maggiori se credete di riconoscervi in quest'ultima categoria. Se è così, posso dirvi con una buona possibilità di esattezza come si evolverà il vostro rapporto con la serie. Sarete catturati dalla prima puntata: le sue atmosfere, la presentazione dei personaggi e, oh, i dialoghi. Mi è capitato davvero raramente, anche nelle pagine più alte della letteratura, di incappare in un capitolo in cui la costruzione dei dialoghi fosse semplicemente perfetta: il modo in cui questi si sviluppano e si incastrano tra loro; la pluralità e la luminosità degli stili; il dipanarsi del ritmo con cadenza perfetta; ciò che le parole lasciano trapelare sulle persone che le hanno pronunciate, quello che viene svelato, quello che resta celato. L'infatuazione peggiorerà nel corso della prima serie (forse anche della seconda, almeno in parte), nonostante i difetti incombenti e i rischi sempre più probabili di deriva che si stanno avvicinando attraverso tunnel sotterranei e di tanto in tanto escono allo scoperto -le avvisaglie ovviamente sono presenti già nella prima puntata. Arriverà il momento, in tempi diversi per ognuno di voi, ma verosimilmente tra la seconda e la terza serie, in cui tutto diventerà troppo evidente e sarà ovvio che la serie sta prendendo una brutta strada; a questo punto però vi sarà molto difficile abbandonare questa serie tv a se stessa e con ogni probabilità vi ritroverete ad amarla nonostante i suoi difetti. Se sarà questo il caso, arriverà anche il momento successivo in cui dovrete confessare a voi stessi che, anche se non sapete bene quando è iniziato, e non riuscite a comprenderne i motivi, è semplicemente successo e, beh, è finita che avete iniziato ad amare Weeds per i suoi difetti. Fregati. Se volete una mia spiegazione al riguardo, si tratta dei due punti richiamati prima, nella quinta categoria. Avete finito per apprezzare particolari via via più eccentrici e sbagliati fino a sviluppare un certo feticismo per questi.

Che Weeds sia piena di difetti, penso sia fuori da ogni dubbio. Prendete i personaggi. Se l'abilità nel creare personaggi si mantiene anche nelle ultime stagioni a livelli insolitamente alti -si nota un certo appannamento, questo sì, ma è inevitabile ed endemico quando il ritmo delle nuove entrate diventa vorticoso ed il loro numero mastodontico- la loro gestione è per molti versi discutibile: ognuno di voi avrà motivo di lamentarsi per gli sviluppi di alcuni dei suoi personaggi preferiti (tanto per citare qualche caso, Guillermo e Shane) e, soprattutto, per la prematura uscita di scena di personaggi promettenti, che presentavano ancora ampie potenzialità non sfruttate -dicevo che i primi sentori c'erano già nella prima puntata, basti pensare alla figlia maggiore di Celia o allo spacciatore ragazzino, che avranno in seguito nutrita compagnia.

C'è ovviamente il nodo centrale della protagonista: una vera smorfiosa. Ma, ehi, quand'è che essere smorfiosi ha acquisito un'accezione così negativa? L'uso smodato e sfacciato della mimica facciale e corporale dovrebbe essere rivalutato: si tratta di un modo di esprimersi molto efficace e accattivante (noi italiani ne sappiamo qualcosa, giusto?). Il personaggio abbina a questa caratteristica uno snobismo strisciante e una accentuata capacità di finire a fare la parte della stronza: anche qui, prendiamo a martellate i conformismi che ci portano a svalutare queste caratteristiche, e avviamo la loro rivalutazione. Ovviamente, è decisamente probabile che a finire per etichettare la protagonista come smorfiosa siano le donne, per invidia. Voi, uomini, ve ne innamorerete, fidatevi di me.

Infine, non si può parlare di Weeds senza fare un accenno alle stoccate su temi politici e sociali di cui ogni puntata (o quasi) è infarcita. Forse il tratto più caratteristico della serie. Potete scommetterci sopra, su quali argomenti verranno trattati; tanto la vittoria è certa -ogni questione trova il suo posto al sole. Omosessualità? C'è bisogno di chiederlo? Iraq? Tutte le strade portano a Baghdad. Eutanasia? Saremmo proprio scemi a lasciare indietro i bocconi più gustosi. Immigrazione? Certo, sono i nuovi muri, ed il ferro dei nostri picconi è ancora bello caldo -e poi questa volta ci apriamo la strada verso tortillas e guacamole, mica bratwurst. Aborto? Beh, per forza, fa pendant. Corruzione, ipocrisia e alcolismo tutte cose endemiche, ovviamente ce le mettiamo. Questi temi verranno affrontati in modi sempre più spicci, liquidati con un'adeguata dose di superficialità e si faranno strada e seguiranno uno l'altro con ritmi ridicoli e senza nemmeno prendersi la briga di coprire la faziosità dell'operazione. Ma anche qui, ognuno potrà trovare la propria razione di conforto: nel senso di granitica superiorità con cui le posizioni progressiste sono presentate, nel caso in cui le si condividano; nella banalità con cui queste sono liquidate, nel caso in cui si sia più cinici e disincantati.

Fate quindi una scorta di pazienza, se volete dedicare parte del vostro tempo a questa serie. Si tratta di un figlio molto inquieto, che prenderà una brutta strada dopo l'altra, e finirete a passare svegli molte nottate, a controllare se il figliol prodigo si è finalmente deciso a tornare a casa, arrivando all'alba sempre più delusi e preoccupati. Ma la sera successiva sarete ancora lì a fare la guardia, pronti ad allargare le braccia colmi di perdono. Aspetteremo molto tempo, voi ed io, e continueremo sempre a nutrire la speranza, nonostante i pessimi presagi. Tornerà, prima o poi. Ci ritroveremo di nuovo. L'anno prossimo, la prossima stagione, a Gerusalemme. Preparate il barbecue, il vitello grasso e la birra; si festeggia così nei sobborghi giudeo-americani.

Imparare a gestire gli addii.


C'è stato un tempo in cui stavo con qualcuno che in quella foto sembrava un'attrice francese, di quelle che a voler accarezzare loro i capelli ti riempivano le mani, e non bastava, perché c'erano molti altri ancora.

sabato 25 settembre 2010

Strategie.


Mi chiedo se qualcuno si chieda come tiro avanti in questo periodo. E' una cosa in fondo risaputa che ho bisogno di aggrapparmi ad un certo numero di cose, più di altri; e non è che sia rimasto molto adatto allo scopo ultimamente.

Beh, faccio come ho sempre fatto, solo con maggiore consapevolezza. Coi feticci; sempre avuti, e sempre stato capace di farmene di nuovi. Ora succede anche che alcuni tornino dal passato.

Uno dei crinali di differenziazione più resistente, e più ripido, nel mondo contemporaneo, è quello che separa gruppi di persone con diverso grado di accesso alle reti di comunicazione e informazione. Un certo numero di linee, come isobare, dall'andamento geografico molto più imprevedibile di quanto si possa immaginare. Sufficiente, per lo meno, a rendere estremamente friabili le dicotomie classiche -nord/sud, occidente/resto del mondo. Ho sempre avuto il difetto di ritrovarmi invischiato in luoghi non troppo favorevoli, da questo punto di vista. Giusto oggi ho riacciuffato la possibilità di guardare La7 -già sono tagliato fuori da Sky, vuoi mai che rimanga lontano dal quarto polo, vista la penuria. La conquista maggiore è il ritorno di Lilli Gruber. Lilli Gruber è un grande feticcio, di quelli che valgono per tre o quattro normali. C'era Lilli, con il muro, e pazienza se non ho dell'evento ricordi diretti, anzi, ancora meglio: è come fosse mitologia. Votato Lilli, in una delle primissime occasioni in cui ho avuto modo di farlo: erano le europee, e giusto i mesi in cui stavo abbandonando le posizioni più estremiste, scambiando il radicalismo con il liberalismo, il massimalismo con il riformismo. Giusto il momento in cui mi sono accampato attorno i Ds, prima di passare oltre, verso lo Sdi. Lei e Costa, quella volta. Mi è sempre piaciuta molto anche fisicamente, Lilli: un archetipo così valido delle donne che mi hanno sempre attratto, con la loro forte carica di fascino, ma talmente atipica da non essere per nulla universalmente riconosciuta, e che si manifesta sempre per vie traverse e molto tortuose. E poi è arrivata ad Otto e Mezzo, e anche quello lì era sempre stato un feticcio. La trasmissione, ma anche il suo ideatore -si perde il conto delle occasioni in cui ho trovato le sue posizioni insostenibili, e le argomentazioni a sostenerle ridicole, ma gira gira va sempre a finire che ogni sua iniziativa editoriale merita di essere seguita. Delizioso il suo fiuto per la spalla da scegliersi -anche lì, Luca Sofri, il feticcio dei feticci, ma durante quell'edizione, La7 non avevo modo di vederla.

E' tornata Lilli e anche questa è una cosa a cui aggrapparsi. E no, non desisto solo perché non sei più rossa, e perché per questo nuovo incontro hai invitato Scalfari: resisto anche a questo.

(A proposito di feticci: preso la raccolta di saggi "Cambiare idea" di Zadie Smith. Uno è sull'enorme carisma di Obama, pare; un altro su quanto David Foster Wallace fosse uno scrittore fenomenale. Ecco, qui dei limiti ce li ho: mi sa che non riesci a convincermi in nessuno dei due casi.)

giovedì 23 settembre 2010

La stagione delle belle cose.

Di nuovo i talk show politici in tv, da seguire in modo frammentato la sera tardi. Tra poco è di nuovo tempo delle calze, in giro per le strade. Si respira finalmente aria di autunno -era ora, c'era mancata questa stagione.

Ora davvero mi rimbocco le maniche -per quanto sia possibile a me- e ne vengo fuori, da questa maledetta tesi.

(Tanto questa strada è lastricata, più che di buone intenzioni, di saggi molto interessanti.)

Dovrei mettere nella lista delle cose da fare anche essere più presente per qualche persona e tenere questo blog un po' più curato ma c'è tempo.

domenica 12 settembre 2010

Cioè che è giusto è giusto

Bisogna essere pronti a riconoscere i meriti altrui, anche al di là delle antipatie personali. Soprattutto di fronte a grandissime carriere. Voglio dire, ha fatto un mucchio di cose importanti. Ha lanciato Uma Thurman, è stato con qualcuno che, sono sicuro, non si meritava minimamente.

domenica 29 agosto 2010

C'è già stato un Bulgakov o un Conrad prima di te.


Io nemmeno sapevo dell'esistenza di Neil Gaiman. Ci sono arrivato per le vie strette e tortuose di Internet. E dire che la modernità doveva farsi largo a forza di spaziosi boulevard; troppi inconvenienti con le barricate. Va a finire che per portare al livello successivo l'ossessione che mi sta montando per Amanda Palmer e, andando dal tutto ad una parte, per il suo account Twitter, mi metto a cercare notizie su questo suo fidanzato, che sembra essere una personalità artistica particolarmente prolifica e -molto- famosa. Nell'ora, abbondante, successiva passo in rassegna schede di Wikipedia, trame dei suoi romanzi e delle sue sceneggiature, critiche delle stesse. E' uno di quei momenti in cui maledico con insistenza il non essere cresciuto negli Stati Uniti o per lo meno in un Paese anglosassone (no, al diavolo, Stati Uniti e basta). Perché, per come sono fatto, se fossi cresciuto in un ambiente simile ora possiederei una meravigliosa e confortante cultura pop, che pettinerei per ore in uno stato di auto-esaltazione, che sarebbe una perfetta coperta di Linus per i momenti di crisi interiore: bando alle ciance e alle depressioni, ho sempre lei! Ho letto, ascoltato, guardato, accumulato ricordi e citazioni in scatoloni sempre più grandi, riempiendo lo spazio attorno a me; non posso mai essere solo. Perché potete raccontarvi molte balle, ma la verità è una sola: fuori dal mondo anglosassone, questo non è possibile; potete cercare di costruirne comunque una brutta copia, ma arrancherete sempre, affannandovi a tappare le fallementre il divario continuerà ad allargarsi. Momenti del genere non sono certo rari; è come quando dovete affidarvi ad un motore di ricerca per non essere riusciti a cogliere subito un riferimento di Perle ai Porci o dei Boondocks. Una volta, per prevenire, c'era almeno Condor; ora c'hanno rubato anche quello. Voglio una cultura pop molto più densa.

Ma c'è una frase di Neil Gaiman sulla pagina inglese di Wikipedia, con cui fare i conti (ovviamente si tratta di qualcosa che avete sempre saputo, e non è certo Gaiman a farvi sorgere per primo pensieri simili. Ma questa frase arriva come un fulmine a ciel sereno, mentre eravate persi tra pensieri opposti, e lo spiazzamento è grande); non è tutto così semplice.

“One of the joys of comics has always been the knowledge that it was, in many ways, untouched ground. It was virgin territory. When I was working on Sandman, I felt a lot of the time that I was actually picking up a machete and heading out into the jungle. I got to write in places and do things that nobody had ever done before. When I’m writing novels I’m painfully aware that I’m working in a medium that people have been writing absolutely jaw-droppingly brilliant things for, you know, three-four thousand years now. You know, you can go back. We have things like The Golden Ass. And you go, well, I don’t know that I’m as good as that and that’s two and a half thousand years old. But with comics I felt like — I can do stuff nobody has ever done. I can do stuff nobody has ever thought of. And I could and it was enormously fun.”

Perché, in realtà, la maggior parte del tempo sono perso in riflessioni del tutto opposte. Per esempio: vivere oggi, sotto questo punto di vista (solo sotto questo, probabilmente) è una gran fregatura. Non si può non rimpiangere l'epoca dei pionieri, quando molti stili e forme artistiche erano ancora sconosciuti e lungi dall'esistere, quando nuovi stili e nuove forme potevano essere create dal nulla, quando gli spazi erano ampi, tutto era verde e lussureggiante e potevi essere tu il primo a lasciarci un impronta. L'età delle scoperte e delle grandi invenzioni.

E non si tratta di un sentimento molto nobile questo. Non è l'intenso desiderio di dare il proprio contributo all'esplorazione; non è lo sfogo dell'ardore, del coraggio, dell'amore per il nuovo. Sotto molti punti di vista è una forma di pigrizia e di indolenza. Perché territori artistici vergini oggi esistono ancora, là oltre l'atmosfera, ma per esplorarli bisogna tirarsi a lucido, rimboccarsi le mani, studiare e raggiungere l'eccellenza, sperando che ci sia data l'opportunità di fare gli astronauti. Una volta non era mica così. I pionieri, i colonizzatori, non dovevano poi essere chissà quali spiriti nobili, ed anzi spesso non erano altro che carcerati (attuali, od ex), pochi di buono, criminali o la feccia più emarginata. Quando lo spazio era tanto e facilmente accessibile era tutto una cuccagna.

Non è poi molto giusta, questa cosa. Puoi anche avere un'idea brillante, con l'isolato sforzo della tua mente, ma è solo questione di quanto tempo ed energia vuoi impiegare nella ricerca e se fai le cose per bene scopri di sicuro che un discreto numero di altre persone l'hanno già avuta prima di te, e si sono presi la briga di svilupparla sufficientemente bene da non lasciarti la possibilità di aggiungere qualcosa di rilievo. Niente da fare, Cuore di Cane, Il Signore delle Mosche e Cuore di Tenebra sono già stati scritti.

Certo, non facciamo troppo i melodrammatici. Non è una trappola poi molto letale. Basta mettersi il cuore in pace, riflettere a mente fredda, e accettare l'idea che, per quanto troverete sempre qualcuno disposto a sostenere il contrario, il culto della novità che regna è senza dubbio pompato e non è per nulla necessario perdersi in foreste fitte, lande desolate, sentieri impraticabili; una sigaretta, una birra e passate in rassegna le solite strade abituali, confortevoli, tirando fuori quello di buono che è possibile. Ma a mente fredda, appunto; a mente fredda non c'è grande spazio per le soddisfazioni, e non si arriva certo dove c'eravamo prefissati.

sabato 14 agosto 2010

Vi manco, lo so.


Tengo botta, spreco tempo, ascolto album sul cricket, accumulo idee per un progetto che non so bene quando vedrà la luce.

(aspetto i mini-live di Dente e Marta sui Tubi a Stereonotte)

mercoledì 21 luglio 2010

Sorprese.

Sono una persona molto progressista. Molto più di quanto credereste dopo aver parlato con me un paio di volte. Un po' di più di quanto credereste conoscendomi da qualche anno. Lo posso dire senza falsa modestia perché sono -contemporaneamente- uno di quelli che credono che l'essere progressisti non sia di per sé una nota di merito.

Lo sono molto più di quanto do a vedere per due motivi, principalmente. Uno: non sono tipo da evangelizzazioni e campagne moralizzatrici. Le mie convinzioni intime -avendole io adottate, ho ovviamente la propensione a considerarle le convinzioni giuste- preferisco appunto tenerle per me, un po' per riservatezza, un po' per egoismo (faccio parte della sponda che, dopo essersi convinta di aver partito un qualche pensiero di qualità, sceglie di tenerselo per sé nell'eventualità che questo vantaggio nei confronti degli altri prima o poi possa tornargli utile, e si guarda bene dal diffonderlo nella società). Due: come dicevo in un post precedente, è molto più divertente sostenere, nel corso di un dialogo, tesi strampalate molto lontane dalle proprie (o, almeno, versioni alquanto estreme e squilibrate delle proprie) -per farsi due risate delle reazioni altrui a simili assurdità, per sviare gli interlocutori da ciò che sono e penso, per sfidare me stesso nel riuscire a sostenere, in qualche modo precario, simili baracconate.

Per esempio vi stupireste di sapere quali tesi avanzate sostengo, a livello teorico, riguardo la questione femminile. (Tesi ovviamente che mi guardo bene dall'esprimere in pubblico). Ehi, d'accordo, mi viene più di un prurito -e non uno di quei pruriti giusti- alle prese con il femminismo e le strombazzate riguardo una presunta superiorità femminile e l'esistenza di un'unica speranza di miglioramento del mondo -da riporre ovviamente nella metà giusta del cielo (per esempio, Lella Costa in un servizio del Tg3 regionale piemontese, qualche settimana fa: io, sempre per quel piglio polemico, avrei voluto risponderle che, se si ragionava a categorie, avevo più fiducia nei lombrichi che nelle donne, nella marcia verso il sol dell'avvenir) ma sono davvero un amico delle donne.

Però quando si arriva a fare i cretini, in pubblico, sulla questione femminile, beh, mi risulta tutto molto più facile del solito, perché le convinzioni teoriche vacillano alquanto sotto il peso dell'esperienza statistica personale. Ecco, se mi baso appunto su questo criterio, mi aspetto di apprezzare due cervelli, in una donna, e non tre. Per cui, quando mi imbatto in qualche rarissimo caso che smentisce questa mia sfiducia, è come una festa. Prendete per esempio Eva Amurri; se avete guardato la terza stagione di Californication, i suoi due cervelli li avrete sicuramente apprezzati. Ecco, sarà forse per una sorta di infusione del suo personaggio in quella serie, ma credo proprio che ne abbia pure un terzo. Qualche giorno fa, su Twitter, ha scritto una frase con una musicalità ed una bellezza in cui non mi imbattevo da un mucchio di tempo.

The 90s were witness to a lot of bad lipstick.

martedì 13 luglio 2010

Solo post con nascita eterodiretta, qui.

Il fatto, in soldoni, è che le categorie cambiano. Cambia tutto, al mondo, ma per le categorie, grossi armadi concettuali, la velocità in cui questo succede è ancora maggiore. E, non so quando sia successo, ho qualche sospetto che sia meno recente di quanto sono portato a credere ma, beh, mettiamola in questo modo: non credo sia più possibile dire, semplicemente, che musica, letteratura, cinema, sia arte. O pretendere, che lo siano. Si tratta di categorie bicefale, in cui convivono arte e spettacolo, intrattenimento. Lati che per la maggior parte del tempo non si toccano, viaggiano su binari diversi, ma che hanno iniziato, in alcune occasioni, a coesistere nella stessa opera. Difficile valutare se si tratti di un ibrido mal riuscito, rispetto all'arte libera di volare alto, senza nessun obbligo, o se siamo di fronte ad un incrocio che migliora la specie.

I topi scorazzano felici per la soffitta, facendosi un baffo di ogni possibile trappola. Però non sono così convinto che si tratti di topi infiltrati dove non dovrebbero stare, in un posto da cui dovrebbero essere cacciati. Che si tratti di topi, poco ci piove. Giuste le sorelle possono pensare queste cose; non noi primogeniti, da noi ci si aspetta saggezza. Ma, il punto è (forse il problema, anche) che questi topi una qualche utilità ce l'hanno. Perché "nel settore" lo scopo è quello di creare qualcosa in cui la gente possa riconoscersi, vedere rappresentato qualcosa che va al di là delle singole note, della singola trama, che supera questo particolare e coglie un generale che riguarda anche loro, che tocca l'umano. E, spiace dirlo, un pubblico attento sarà anche in aumento, in termini assoluti, ma tristemente andrà sempre indietro in percentuale. Non che sia una colpa, in fondo; tu ed io siamo liberi da pruriti democratici, no? Bene, allora possiamo confessarci a vicenda che un certo livello, un certo tipo di sensibilità non sono da tutti. Le persone sono diverse, ed arrivano a punti diversi, a livelli diversi. E anche chi si ferma a pochi passi dal via in fondo ha diritto a delle canzoni, dei libri, dei film, che siano per lui, in cui possa trovare comunicato qualcosa, e trarne sollievo.

E bisogna dire che, in alcuni casi, questi topi sono anche da ammirare (perversamente, eh. Perversamente.). Perché riescono a metterci un certo grado di professionalità, in quello che fanno. Io, al loro posto, fare le cose tirate, un poco alla cazzo, visto che non cambierebbe molto. E, nella maggior parte dei casi, hanno la compita educazione di non travalicare i confini, e mostrano il buon gusto di non ritenersi geni, o considerare i propri lavori arte (ok, con Allevi questo non funziona, ma sono eccezioni in fondo). Sanno di non essere giganti, di non sopravvivere alla stagione, e proprio per questo si godono la gioia terrena (amen).

Altri punti su cui non sono del tutto d'accordo:
- pieno così di artisti che, una volta iniziato ad andare alla grande, ed intascare a palate, hanno continuato a sfornare capolavori -il successo, la fama, i soldoni non sono poi così tanto il demonio;
- Amen pure sul ruolo salvifico di internet, ma la situazione è un poco controversa. La ricompensa di un artista non sono i soldi? Forse, probabilmente, la ricompensa più grande di un artista non sono i soldi. Ma è giusto, e si deve trovare il modo, che la ricompensa degli artisti siano anche i soldi. Abbiamo tutti e due quest'idea artigianale, dell'artista. E dal lavoro delle proprie mani, dai frutti estratti dal proprio impegno, soprattutto se quello che ne esce ha un valore e rappresenta un'utilità per molte persone, è giusto ricavare qualcosa. Il giusto, il ragionevole, e attraverso meccanismi e strade semplici e ben tracciate; non tortuose e gonfiate. E sì, scarichiamo tutti, è l'unico modo, attualmente, per molti di noi di farsi una cultura, e diventare persone per bene. Bisognerà trovare qualche altro modo, prima o poi, perché non credo questo sia quello definitivo.
- Sai, a me Cento Colpi non dispiace. C'è qualcosa, lì dentro (forse solo la prova di quanto sono depravato).

(questo post non è solo frutto dello show di Shakira. Non solo.)

Cosa significa Ah-um.

Zadie Smith, Della Bellezza, Oscar Mondadori, pp. 86-87

Il Requiem di Mozart inizia con te che cammini verso un'immensa buca. La buca si trova in fondo a un precipizio, nel quale non riesci a gettare lo sguardo finché non sei arrivato proprio sul ciglio. In fondo alla buca ti aspetta la morte. Non sai che aspetto abbia, che voce abbia, che odore abbia. Non sai se sarà bella o brutta. Puoi solo camminare verso di lei. La tua volontà è un clarinetto e i tuoi passi sono accompagnati dall'intera sezione dei violini. Più ti avvicini alla buca, più cominci ad avvertire che ti attende qualcosa di spaventoso. Eppure vivi questo terrore come una sorta di benedizione, di dono. Tutta la strada che hai percorso finora non significherebbe nulla se alla fine non ci fosse quella buca. Getti lo sguardo nel precipizio: sei travolto da un'esplosione di suoni eterei. In fondo alla buca c'è un immenso coro, come quello al quale hai partecipato per due mesi alla Wellington e nel quale eri l'unica donna nera. Questo coro è l'esercito celeste e al tempo stesso l'armata del demonio. E' anche ogni persona che ti ha cambiata durante il periodo trascorso su questa terra: i tuoi molti amanti; i tuoi familiari; i tuoi nemici, la donna senza nome né viso con cui tuo marito è andato a letto; l'uomo che avevi pensato di sposare; l'uomo che hai sposato davvero. Compito del coro è giudicare. Prima cantano gli uomini, e il loro giudizio è estremamente severo. E quando attaccano le donne, non c'è un istante di tregua, il dibattito si fa sempre più aspro e acceso. Perché quello è davvero un dibattito... solo adesso te ne rendi conto. Il giudizio finale non è stato ancora emanato. Ti stupisci per quanto si faccia drammatico lo scontro per qualcosa di insignificante come la tua anima. Non meno sorprendenti sono le sirene e gli scimmioni che continuano a intrecciare girotondi giù per un sontuoso scalone durante il Kyrie che, secondo il programma, non prevede nessun numero del genere, nemmeno in senso metaforico.

Kyrie eleison.
Christe eleison.
Kyrie eleison.

giovedì 8 luglio 2010

Un ometto, ormai

Se uno è fortunato, davvero fortunato, ha una cosa in più degli altri. Beh, a dire il vero sono molti, questi possibili vantaggi comparati con cui spiazzare la concorrenza, sul mercato internazionale. Ma quando si arriva alla vita personale, lì il vero vantaggio è uno solo: la consapevolezza. Gli altri ondeggiano immersi in situazioni, contesti, sistemi, come se fossero al centro di un budino o una gelatina e, ovviamente, ovattati in quel modo, non capiscono niente di quello che succede attorno. Ma tu no, tu vedi i singoli avvenimenti mentre accadono, li isoli, e li comprendi. Che sia chiaro, questo non ha alcuna ricaduta pratica, e ad essere venali non ci guadagni niente. Ma ti accontenti, non è in fondo poco riconoscere i passi importanti della propria vita, i singoli momenti che, boom, ti rendono più maturo.

Succede per esempio quando smetti di innamorati di attrici, cantanti, cantanti-attrici. E ti innamori di una scrittrice. Hai raggiunto una certa profondità. Ben fatto, amico.



domenica 4 luglio 2010

Warning+spoiler: chiacchiere egocentriche

Non è un post per Alessie.

In quest'epoca non ci sono più certezze, uh? Non si sa più dove si sta andando, una strada sembra valere l'altra e la cosa comica è che questo casino l'abbiamo creato, paradossalmente, volendo mettere troppi cartelli ed indicazioni, per fare chiarezza, ed ora in questa babele sembriamo incapaci di riuscire a leggere giusto il cartello che servirebbe a noi. Non è che le certezze vacillino, sono proprio crollate, e mica dal 2001, almeno da Londra e Dresda. Come direbbe Bloch, non c'è più niente da ridere dal '43.

Giusto per cercare di capire quello che mi gira intorno, mi sto adeguando anch'io a questo trend. E vedo in crisi due credenze su cui avevo sempre potuto contare. Da buon modernista atipico, mi sono sempre guardato dall'idea di progresso che si presumeva avvolgere la società (coccolo di mio un'idea molto più sensata e simpatica di progresso, un progresso buontempone e un po' confusionario, dovreste conoscerlo, ne vale la pena) ma, giustamente, mi tiravo fuori dal generale, e nel particolare credevo nel progresso di me stesso. Comunque andassero le cose, mi sembrava di diventare sempre migliore rispetto a quello che ero prima; semmai il problema poteva essere il tasso, di questo progresso, che la maggior parte delle volte finiva per essere inferiore al desiderato, al previsto, al richiesto; ma, insomma, a conti fatti non potevo lamentarmi. La seconda certezza, in parte legata alla prima, era che, al diavolo, fossi un gran bel pezzo di interlocutore. Mi cullavo nell'auto-convinzione che, per quelle poche persone che riuscivano a tirarmi fuori dal guscio di mutismo selettivo che mi prende, di tanto in tanto, dovesse essere comunque piacevole parlare con me. So adattarmi ad argomenti, timbri e situazioni; ho -io- un rapporto non proprio disastroso con ironia e sarcasmo ma, quando serve, riesco a cacciarle in un angolo, dimostrarmi comprensivo e perfino sensibile; soprattutto, riesco a mettere da parte un certo armamentario di idee e convinzioni, riesco a spiegarle con un discreto rigore logico, e sono disposto a metterle in gioco, anche. Beh, giusto per smontare questo auto-incensamento, mi riconosco sempre meno in una descrizione simile. Penso c'entri molto il fatto che negli ultimi anni mi sono aggrappato sempre più a rapporti in cui l'ironia e il sarcasmo di cui parlavo prima finivano per diventare il tono principale e, devo dirvelo, non sono più così convinto che abbia tutto questo gran senso, il motto castigat ridendo mores. Va a finire che a forza di ridere e ridere, senza neanche accorgervene, diventate delle iene, e non vi riesce più di parlare con gli altri mettendo in gioco un briciolo di sincerità, e di umanità.

E' che è salita di molto la mia soglia di intolleranza, superata la quale mi viene più semplice sbeffeggiare, che dialogare. E' che mi sembra dovrebbe esserci almeno qualcosa dato per pacifico, un abc che non si mette in discussione. C'entra anche il fatto che ci siano per me dei tasti sensibili, e uno di questi è tutta questa infatuazione per il mito del buon selvaggio, dell'età dell'oro andata perduta, del paradiso terrestre che c'era e ci siamo dovuti mettere in testa di perdere. E' roba per Rousseau, questa, io no grazie, salto il turno. Davvero, non ci riesco. Non riesco a prendere seriamente gli "ah, una volta, signora mia, le cose andavano meglio" e i "si stava meglio quando si stava peggio", e a dialogarci. Non nelle forme più degenerate, che so, certe forme di terzomondismo e di esotismo, o quell'amore smodato per una presunta innocenza dell'infanzia. Vogliamo dirla tutta? Senza curarci di essere cattivi, o stronzi? Beh, lo sapete perché i bambini fanno ooh? Perché non capisco un cazzo, sono stupidi, e per molti versi sono più vicini alle larve, che ad un senso compiuto di umanità. Questa presunta quintessenza di purezza che riconoscete loro è al tempo stesso direttamente legata al fatto che non sappiano stare in piedi saldamente, controllare decentemente il proprio corpo, che non capiscano niente (o molto poco), del mondo che li circonda. Grazie a dio viene il momento in cui la smettono, di fare ooh, e cominciano ad essere in grado di fare discorsi più articolati, imparano a stare saldamente sulle proprie gambe e sostituiscono la sorpresa ebete che li coglie di fronte ad ogni fenomeno con la comprensione dei fenomeni che li circondano (o per lo meno con la consapevolezza di dover tendere, verso questa comprensione).

Ma non mi riesce nemmeno con le forme più raffinate, elaborate, intelligenti. Perché, dai, davvero, alla fine di tutto è questa la questione? La perdita dell'ordine, dello scopo, del senso. La complicazione di tutto, e l'inquietudine che ne deriva?
Di una vita che nemmeno doveva interrogarsi, sul senso: nascevi e lavoravi, crescevi e lavoravi, ti sposavi e lavoravi, mettevi al mondo dei figli e lavoravi, invecchiavi e lavoravi, morivi infine e via, nelle grandi braccia accoglienti di Nostro Signore Iddio. Dovevi solo essere buono.

Sarebbe stato il sorriso stupido e vacuo dell'ebete, ma sarebbe stato comunque un sorriso.
(Mi verrebbe da notare che molti invece lamentano il fatto opposto, che in questa società non ci è dato che accettare il senso che l'ordinamento stesso ha stabilito, che l'uomo non può uscirne ma deve obbedire e seguire il nastro trasportatore costruito per lui. Ma facciamo che non lo noto).
E dire che io credevo fosse il caso di fare un minimo di festa, con tanto di trombette, per questa "conquista". Che valesse la pena fare qualche capriola di giubilo (prima di recuperare il dovuto aplomb, ovviamente) per il fatto di non essere più costretti a dover accettare un senso costruito a scatola chiusa, che ci fosse una buona volta concesso il lusso di trovarcelo da noi un senso, di indagare, ricostruire, esplorare e scoprire. Mi sembrava fosse una libertà non di poco conto; e se ha un peso, beh, allora? Era forse scritto da qualche parte che non dovesse averlo? Mi sembrava carino, che ognuno potesse cercare e trovare il proprio senso, e che alla luce delle ricerche, dei pensieri e delle indagini, si potesse scegliere perfino un senso sensato, rispetto a quei sensi sbilenchi che erano stati rifilati a miliardi prima di noi. E, se alla fine del giro in giostra, fosse saltato fuori che un senso non esiste in fondo, non è che forse possiamo rallegrarci di aver scoperto questo dato di fatto, invece di starcene tutti scomodi compressi dentro un senso fittizio? Guarda che a starsene a lungo costretti in posizioni non naturali se ne viene fuori tutti anchilosati.
Come? Tutto questo potrà anche essere vero, ma alla fin fine, guardando agli effetti concreti, una massa di diseredati -noi!- che brancola a tentoni perché se lo deve trovare, questo senso, e non lo trova più confezionato nei discount, sperimenta la difficoltà del vivere, la confusione e il paradosso dell'esistente, sguazza nell'inquietudine, nella depressione, nel vuoto che sembra circondarla? Ma scusa, e se per caso la vita non fosse che un caos ed un vuoto che inquieta? Non sarebbe questo stato semplicemente coscienza, comprensione, concezione di sé e dell'esistente? E se anche fosse che qualcuno si perde, in tutto questo, non è comunque un passo avanti che ci sia concessa la possibilità di inoltrarci fuori, alle intemperie e al gelo, per poter seguire la strada che vogliamo? Perché alla fin fine questa è un'opportunità, eh, che sta davanti a chi vuole coglierla, ma in fondo nessuno c'è spinto dentro, l'opzione di lasciar perdere tutto questo, e rincantucciarsi in un angolo di senso prestabilito e prefabbricato, in cui vivere a scatola chiusa, c'è sempre. Guardati attorno: è pieno così di gente che continua imperterrita secondo lo stile old school.
E per noi che non ci riusciamo, davvero il bandolo della matassa è il sorriso ebete? (Perché su questo c'è poco da discutere, quel sorriso è proprio ebete). Seriamente, siamo davvero qui a interrogarci se possa convenirci barattare tutta l'inquietudine che ci portiamo dentro con un sorriso ebete? Vale di più un sorriso ebete stampato 24 ore su 24 su questi nostri visetti, belli ed intriganti, che i nervi tesi quasi di continuo ed un solo timido sorriso, intelligente però, che riusciamo a sfoggiare ad ogni morte di papa, e che poi sfugge presto? Certo, c'è sempre da tenere in conto la possibilità che non arrivi mai quel breve momento (eh, a me non capita da parecchio, ad essere sinceri) ma a questo punto ho io una domanda: non è che forse i sorrisi sono un po' sopravvalutati, al giorno d'oggi?

(visto che in apertura c'è Perle ai Porci, devo dirlo: a me questa serie continua sempre a piacere da matti, anche quando smonta tutto quello che dico. http://comics.com/pearls_before_swine/2010-07-04/)

sabato 3 luglio 2010

La fede è un piatto da servire freddo


Funziona così: il cult movie (cult movie in potenza, ma non ancora in atto) esce, non è che sbanchi il botteghino o chissà cosa, anzi muove queste prime mosse in sordina, ma sapete come va, le voci girano e la gente mormora e piano, come un diesel, va a finire che quel film si scava una nicchia nella memoria del pubblico, lancia espressioni o parole che possono perfino approdare al vocabolario, forgia l'immaginario comune.

Per esempio, con la fede va a finire così. Buio, buio, buio, poi arriva una luce -l'illuminazione- e sono balzi e capriole (credete forse che dovrei farne anch'io, di capriole simili, solo perché mi sta venendo una panza à la Belushi?) e gospel cantati tra folle deliranti. Arriva la luce, è un accecamento improvviso, e chi si ricorda più dei decenni di buio precedenti? Dove sono ora i giornali di partito, i giornali-partito, che non criticano un simile atteggiamento condonistico? Basta una simile ubriacatura e ci scordiamo le liste di peccati originali?

No, no, di una fede così il mondo dovrebbe saperne fare a meno. Io, nel mio piccolo, ci riesco. Non che rifiuti la fede del tutto, è che non è possibile vivere questa cosa con un po' di ragionevolezza in più, con calma e pacatezza? Quella luce è da sempre dentro di me, l'ammirazione, l'aspirazione, la devozione per un simile popolo eletto, caparbio e tenace, affidabile e puntuale. La fede non è proprio qualche mossa circense, delle urla ispirate, e sperare che questo basti, e si sia apposto così. E' riconoscere il valore, collocarlo nel giusto luogo, capire ciò che manca, a noi, per raggiungere quel livello, per essere degni della rivelazione, e colmare la distanza a passi ostinati. Da parte mia, oggi assisterò alla funzione con una gran calma dentro, godendomi la tranquillità zen di un simile rapporto con la fede, conscio del fatto che sempre giusta è la strada tracciata dalla forza, e non avrebbe senso un'inversione di marcia alla prima curva.

(ed ora, cancellate tutto. Perché più forte della fede in una nazione è la fede nell'uomo. Nel profeta riconosciuto, che miracoli ha compiuto lungo tutta la fascia di Galilea, per mostrarci la verità, affinché l'imprimessimo nelle nostre menti e ne conservassimo il ricordo, dopo la sua ascesa alla mediana. E se segna lui, al diavolo la pacatezza, butto giù la casa -che per l'occasione non è nemmeno la mia, troppa fortuna.)

domenica 27 giugno 2010

And me too, to tell the truth


Capita delle volte che le principesse, gli eremiti o i maghi scendano dalle proprie torri bianche, quelle costruite in pietra con uno stile un po' sorpassato, in cui le cose succedono di secolo in secolo senza prendersi la briga di un minimo di vitalità. Si tratta di avvenimenti con ben poco preavviso, e ci si ritrova come fuori la hall in pigiama dopo l'allarme, ad improvvisare un certo stile. Fortuna che nelle fiabe le compagnie sono sempre di ottimo livello, tra cavalieri disarcionati che non perdono tempo a leccarsi le ferite, paladini ben piantati, dolci animaletti e fate scarlatte (ci sono anche gli orchi verdi, certo, ma ormai da un pezzo non mangiano più i bambini). Non che basti, per poter contare su un lieto fine. Quando torniamo alla nostra Contea scopriamo di avere un paio di pesi in più da portare sulle spalle e di fare un poco più di fatica a risalire le scale per la stanzetta su in cima (e ci chiediamo quanta fatica in più ancora faremo, quando capiterà di doverle riscendere). Fossimo persone che confidano agli altri le proprie emozioni, sfoglieremmo un vocabolario sinceramente un po' tetro. Scomoderemmo paroloni come inquietudine, malessere, inadeguatezza; cavalli di ritorno dai tempi passati e non più scatoloni di sabbia. Gran fortuna il riserbo, vero?

Non è solo una serata presa per il verso sbagliato. Non è semplicemente trovare avvilente la cronica incapacità di avere a che fare con gli altri con naturalezza; calmi, tu ed io, voi ed io, due chiacchiere ed una condivisione sincera, no, non così, aspetta, niente, non viene. Non è la mazzata di una massa di persone da cui si dovrebbe scappare a gambe levate; molesti, modesti, mediocrità in libera uscita, la foga di riempirsi la bocca di goliardia, l'ammassarsi per ondeggiamenti e gesti imbarazzanti, lo sgolarsi per coretti e canzoni proprio divertenti; quintalate di carne a perdere, e qual è il senso di tanta umanità sprecata? Non è nemmeno la soffocante incapacità di passare sopra tutto questo conservando il senso del limite ed il controllo. È che, nonostante tutto, continua a valere la pena, di restare immersi in quello che ci sta attorno, e se ne potrebbe ricavare qualcosa di buono, ad essere capaci di un'osmosi sana. Bisognerebbe svegliarsi la mattina avendo la continua ossessione di voler dare una voce a questa ricchezza caciarona, e ne uscirebbe una musica densa, a grumi, piena di suoni ché non sarebbe proprio possibile inserirne uno di più, ci sarebbero i fiati, e per forza!, e pure un buon basso (raccontare la vita senza un basso? Ma sei pazzo?), con vari generi, ma mica messi in fila, eh, tutti ammucchiati, tenuti insieme da spinte promiscue (e se la voce è quella che è, sei forse sordo, che ti perdi a criticarla? Non senti tutto quello che ci capita attorno? La voce è quello che deve essere, la voce di un passante preso in mezzo). Perché la vita è bella anche in esilio, si trova sempre qualcosa a cui aggrapparsi, che siano fianchi, luci, o gli altri, e se hai un minimo di culo ti capita anche di sopravviverci insieme, alle sbornie, ai momenti così, alle inadeguatezze, alla propria anima (all'ossessione per le donne mi sa di no, invece, sarà perché hanno sempre un odore migliore). È che mi sveglio, mattina dopo mattina, e la detesto la musica che ne uscirebbe: credete forse che non lo sappia già, tutto questo? Credete che abbia bisogno di farmelo ripetere da voi, ad ogni play? Non vi passa per la testa che ci abbia provato, più di una volta, e che non mi riesca, e non ci sia niente da fare?

La principessa torna a casa, risale le scale sbuffando e a fatica (quei pesi in più, ricordate?) e come musica intreccia un blues scarno e poco originale, lungo lungo, se lo gettasse dalla finestra arriverebbe fino a terra. Per le stagioni a venire si fustiga, nel tempo del disgusto, per le proprie manchevolezze, ancora e ancora, di tempo ne ha, il prossimo avvenimento è atteso tra un secolo. Questa torre è abitata da una principessa alquanto masochista.

domenica 13 giugno 2010

Io ne bevevo quando tu ancora giravi video rap


Un uomo che non capisce nulla di birra, non capisce nulla di nulla.

Il presidente ha ricordato al premier che gli Usa hanno registrato un maggior numero di vittorie contro l'Inghilterra, scommettendo "la migliore delle lager britanniche contro la migliore birra americana" su una vittoria statunitense.

Ho sorpassato il progresso a destra


Non si connette. Si connette con problemi. Si connette. Non si connette. Non si connette. Non si connette.

Va bene, ho un problema. Fingiamo, con aria competente, di essere in grado di trovare una soluzione. Problemi con il modem. Fai vari test, aggiorna driver, disinstalla e reinstalla, e cose così, niente. Può essere un problema di compatibilità di qualche aggiornamento scaricato nel frattempo? Eh, bella domanda. Rapido esame: non credo. Virus? Ipotesi scartata: fiducia illimitata riposta religiosamente in AVG. Che possa essere il cavo? Bah, non credo, ma proviamo, non si sa mai. No, come volevasi dimostrare. Riproviamo con la trafila modem e problemi di computer vari. Niente. Non è nemmeno il pc, mi dà lo stesso problema con altri due.

Va bene, respira a fondo e preparati a fare una telefonata molesta alla Telecom: di sicuro è un problema di rete. Uhm. Magari prima facciamo un salto a prendere un cavo nuovo, magari nel frattempo hanno creato magici cavi che funzionano nonostante tutto e tutti. Oh, funziona. Era il cavo. Pensa un po', smanettamenti inutili. E anche l'altro cavo con cui avevi provato era rotto. Due su due.

Sono una persona digitale in un mondo che, a conti fatti, è ancora analogico.

domenica 30 maggio 2010

Cercare in un passero su un ramo lo spunto per la rivoluzione



Certe volte viene da credere che non esista, il libero arbitrio. Perché, se ieri dovevo scegliere tra X ed Y, non è che avessi davvero la possibilità di scegliere Y, se poi si è verificato X. Era impossibile che si verificasse Y e la prova è che effettivamente Y non si è verificato, in quello che per noi comuni mortali (noi che di fisica ne capiamo ben poco, e certo non le cose scoperte dal padre del leader degli Eels) è l'unico universo, l'unica realtà esistente. Per noi che negli universi alternativi, o paralleli, non ci crediamo (ok, è arrivato Lost nel frattempo, ad incasinare le nostre convinzioni). Gli eventi accadono per necessità, determinati da una massa di variabili così estesa ed intricata, che non ci è dato ricostruire, per ora, con i nostri limiti. I segni ci sono, anche se non riusciamo a leggerli.

Per esempio, ce n'erano, di segnali, che gli equilibri dello sviluppo si sarebbero riaggiustati, nel mondo, e che Paesi emergenti sarebbero arrivati a sembrare (ed essere, anche se per il momento solo in parte) attori fondamentali sullo "scacchiere internazionale". Prendete i BRIC, per esempio. Va bene, la definizione non è nata in ambito accademico, ha un uso più che altro giornalistico e sensazionalistico e i tentativi di farla passare per una specie di organizzazione, e non di un gruppo eterogeneo la cui coordinazione e cooperazione è sempre occasionale, eventuale, non istituzionalizzata, è puerile. In più la Russia non è che c'entri molto, con gli altri. Va bene allora, BIC. Ecco, prendiamo i BIC. Che avrebbero avuto un futuro radioso, doveva essere capito almeno dai primi anni '90. Street Fighter: Blanka e Dhalsim i personaggi più interessanti, Chun Li una gnocca pazzesca. Eh, i segnali...

giovedì 27 maggio 2010

Così battezzo anche Twitter


Ok, ammetto di non essere molto imparziale sul tema. Perché della Corea del Sud sono, come si direbbe in inglese, un big fan. Un po' perché, davvero, al mondo non esiste un'area interessante quanto l'Asia orientale e diciamocelo, di avere una passione per il Giappone son capaci tutti, soprattutto se fai parte di una generazione che è cresciuta a suon di anime, è impazzita per Mai dire Banzai, si è potuta godere il periodo d'oro di Kitano (e di Miike, e di Sono...) e il boom dei locali di sushi nelle città (e Padova non scherza, in questo). E la Cina è per yuppies che si fanno trascinare dalla corrente, almeno per il momento. La Corea invece è perfetta, per fare gli snob. Un po', anche, perché mi ricorda, per mille piccole coincidenze (che probabilmente mi costruisco io), la mia adorata Germania: alcune dinamiche sociali ed elementi caratteriali diffusi, alcune somiglianze nell'industrializzazione e nell'economia, alcune coincidenze storiche, il paese diviso, ecc ecc.

Aggiungiamo, visto che ci siamo, che Kim Ki-Duk, il mio regista preferito, ha girato un numero variabile di film che stazionano periodicamente nella mia decina di film preferiti (stabilmente almeno tre: L'Isola, Ferro3, La Samaritana)e che sono coreani pure due dei migliori fumetti che abbia mai letto (Il Grande Catsby, soprattutto, e I Fiori del Male) ed una delle serie tv demenziali più riuscite (Franceska). La ciliegina sulla torta: trovo geniale l'idea di avere una rete nazionale satellitare, in lingua inglese, che faccia una promozione del Paese a tutto tondo, dal punto di vista turistico, certamente, ma anche culturale, sociale, politico, con programmi di approfondimento precisi e professionali, documentari coinvolgenti, lezioni di lingua coreana molto divertenti ed amenità varie (non mancano ovviamente badilate di K-Pop mielenso e i tornei di videogiochi vari).

Comunque, morale della favola: avete bisogno di un'idea semplice, economica e di facile realizzazione per una salsa da abbinare a piatti di carne o verdura spadellati? Ecco la soluzione, direttamente dalla rete Arirang. Tritate finemente una quantità a piacere di cipollotti e spicchi d'aglio (più avrete la pazienza di essere minuziosi, nella dimensione del trito, meglio verrà la salsa). Scaldate sul fondo di una padella un filo d'olio (avvertenza: se non l'avete già fatto, abbandonate per sempre il falso mito che la cucina italiana sia la migliore cucina del mondo. Fandonie che ci raccontiamo per avere almeno qualcosa di cui vantarci. Il mondo è pieno di ottime cucine nazionali, di cui è impossibile fare una classifica oggettiva di qualità. Mai provato a considerare il Sud-Est asiatico, il Sud America, l'Europa centro-settentrionale, per esempio? Quindi, come primo atto liberatorio da questa schiavitù mentale, ripetete cento volte che l'olio extravergine d'oliva non è il miglior olio del mondo. Esistono molti altri tipi di ottimo olio, ognuno più adatto per determinati scopi. Questa volta usate un olio di semi, preferibilmente di girasole), e fate appassire nella padella i cipollotti e l'aglio -senza fretta e a fuoco lento. Raggiunto il punto di cottura desiderato, aggiungete salsa di soia (del tipo giapponese -salato, per intenderci), miele (chiaro) e zucchero, regolando anche in questo caso le quantità secondo il vostro gusto. Fate continuare la cottura, se necessario, fino ad ottenere una consistenza vischiosa. La salsa è pronta: versatela nella padella con gli ingredienti principali del piatto, mescolate, e lasciate insaporire qualche minuto prima di servire.

(Questo post dato che la mia blogger preferita latita dal web -o parla di argomenti esiziali- e con lei la rubrica Giovedì gnocchi. Potrei farne una rubrica anch'io: "L'etnico fatto in casa - se la Lega fa chiudere il tuo kebabaro di fiducia")

Si vive insieme, si muore soli


Il Tg3 della notte non è certo un campione di imparzialità e la loro corrispondente dagli Stati Uniti non può certo vantare particolare brillantezza. Eppure, anche tenendo a mente questo, sono rimasto decisamente spiazzato, qualche sera fa.

La giornalista riportava baldanzosa una dichiarazione del presidente Obama a Napolitano, in visita negli Stati Uniti. In soldoni: l'America ci tiene a conservare un rapporto con l'Europa, ma nel quadro multipolare della relazioni con i Paesi Asiatici, il Brasile, ecc ecc... Posso capire che non le sembrasse vero poter usare finalmente la parola multipolarità con tono propositivo e non polemico nei confronti dell'America (eh, basta farsi un giretto di una decina di minuti su Camilloper farsi un'idea di quanto sia cambiata la politica estera americana), ma non ci si è resi conto neanche per un istante delle ricadute di questa posizione?

Il rapporto transatlantico è logoro ormai da decenni, senza che ci siano stati segnali di recupero importanti (non so quante volte ho sentito citare, nell'ultimo periodo, la battuta di Kissinger sul numero telefonico dell'Europa, ed eravamo con Nixon -uhm, o Ford, ricordate?). Di fatto, un legame stabile tra Europa e Stati Uniti, in cui entrambe le parti riconoscano nell'altro un pilastro fondamentale della propria proiezione internazionale, in cui ci sia una comunanza di intenti e di posizioni (o in cui si sappia trovare una sintesi tra diverse posizioni, in nome di una compattezza giudicata prioritaria al perseguimento dei propri interessi), non esiste più. Ma, almeno nella forma, un certo riguardo reciproco lo si era sempre conservato.

Ora, sembra che anche questa patina di formalità sia venuta meno. Il primo viaggio di stato ufficiale della Clinton in Asia e non in Europa (novità assoluta), tanti piccoli indizi nel corso della crisi, la fantomatica (sì, sì, fantomatica, per un po' possiamo ancora stare tranquilli) Chimerica profetizzata nei giornali. Frasi come quella indicata prima. Non so quanto ci sia da rallegrarsi, di questa nuova piega.

Se non altro, una cosa positiva c'è. Una freccia in più nella faretra di quanti pensano che le inflazionate teorie di Huntington sullo scontro di civiltà fossero, detto fantozzianamente, una boiata pazzesca.


mercoledì 21 aprile 2010

Poi dici che non capiscono: era la pancia quella, non la testa


Non ho mai apprezzato granché il personaggio Mark Twain, e ancor meno lo scrittore. Ma, visto che incappo spesso nell'ultimo periodo in discussioni sul tema, che oggi sul Riformista è stato pubblicato uno stralcio da un suo libro in uscita, e che ricorrere alle citazioni di persone famose è un ottimo modo per esprimere le nostre opinioni, in forma migliore di quanto riusciremmo mai a fare, riporto alcuni estratti. (Anche perché far capire come la penso, riguardo all'opinione pubblica, renderebbe molto più chiaro un post sull'astensionismo, se mai mi deciderò a pubblicarlo).

"...prestiamo più attenzione ad accordare le nostre opinioni con quelle del nostro vicino e a mantenere la sua approvazione, piuttosto che a esaminarle con scrupolo per vedere se siano giuste e fondate. Questa abitudine conduce necessariamente a un altro risultato: l'opinione pubblica che nasce e si alimenta in questo modo non è affatto un'opinione, è semplicemente un'abitudine; non suscita riflessioni, è priva di principi e non merita rispetto" (si noti che il non meritare rispetto non comporta il non meritare attenzione)

"Il cittadino medio non è uno studioso delle dottrine dei partiti, e a ragione: né io né lui saremmo in grado di comprenderle"

"Lo stesso vale per qualsiasi altra grande dottrina politica; perché tutte le grandi dottrine politiche sono piene di problemi difficili -problemi molto al di fuori della portata del cittadino medio"

A queste riflessioni è da collegarsi il fatto che:

- la politica non deve rispondere esclusivamente all'opinione pubblica;
- non è buona politica quella che si pone come unico obiettivo e che riconosce come unico metro della bontà del proprio operato l'aderenza piatta all'opinione pubblica;
- compito della politica è quella di riconoscere le esigenze ed i problemi sociali che stanno alla base delle manifestazioni dell'opinione pubblica e dar loro una risposta all'interno di una più ampia e strutturata cornice ma spesso il modo migliore per farlo non è quello di far propri gli umori dell'opinione pubblica, riguardo a quelle tematiche (riassuntino più chiaro: la politica deve rispondere alle esigenze mosse dall'opinione pubblica, ma non deve -necessariamente-farlo con i toni e le misure invocati da questa. Che poi in questo sta la diversa natura della democrazia indiretta, per quanto molti cerchino di spacciarla per una mera soluzione pratica, "perché non ci stiamo più tutti fisicamente in piazza, a votare per alzata di mano");
- tutta la gloria ottenuta passando attraverso la via più semplice, è ben poca cosa, ed ha poco senso mettere il broncio ed invidiarla (in parecchi hanno scritto cose brillantissime su questo. A me viene in mente un articolo di Polito);
- un partito può adottare una linea d'azione simile solo a patto di avere una propria solidità interna, in termini di strutture e di idee, capace di reggere ai contraccolpi dovuti a questo scollamento dall'opinione pubblica. Tutte le filippiche sulle possibilità di successo di un partito moderno, snello, light, sono favole belle o, per dirla più prosaicamente, fuffa.

A me sono sembrati questi gli argomenti migliori, per spiegare a chi vede, ancora dall'esterno, il fenomeno Lega come un partito che ha saputo ammodernarsi, civilizzarsi, e fare propria una buona linea politica.